In attesa di un miracolino i cerottini della manovrina

Ora tutti concentrati sulla Legge di stabilità, ma nessuno che abbia un’idea forte per tirarci fuori dalle secche della stagnazione.

Come una leggera terapia di antibiotici da fare ogniqualvolta ci sia il rischio di guai peggiori, così i governi degli ultimi anni, ogni due o tre mesi approntano una manovrina sui conti pubblici. L’ultima, varata in queste ore dal governo Letta, deve trovare la copertura ad un buco di 1,6 miliardi di euro (lascito dell’addio all’Imu) nel rapporto deficit-Pil, che non deve superare il 3%, pena mannaia europea sulle nostre tasche.

Un miliardo e mezzo di euro su 800 di spesa complessiva sarebbero un’inezia, se non fosse che la politica italiana su queste inezie s’impantana come nelle sabbie mobili. Tra quarant’anni gli storici si stupiranno del fatto che l’aumento di un punto percentuale dell’Iva abbia occupato le prime pagine dei giornali per un mese (a proposito: è aumentata e finora non è morto nessuno).

Questa volta si rimedia da una parte lodevolmente, cioè senza aumentare per l’ennesima volta le accise sui carburanti (la benzina italiana è la più cara della Via Lattea); dall’altra parte si agisce “all’italiana”: si è deciso che verranno “venduti” immobili pubblici per un valore di 500 milioni di euro. Ma non sul mercato, che non li acquisterebbe dall’oggi al domani, bensì alla Cassa depositi e prestiti, cioè ad una costola di Stato il cui bilancio non è però contabilizzato dentro quello dello Stato. Una partita di giro contabile. Speriamo che in Europa non venga in mente a nessuno di chiedere di quali immobili si tratta, e a che prezzo ciascuno.

L’altro taglio riguarda le “spese dei ministeri”, che nell’immaginario collettivo sembrano essere le matite e i caffè ministeriali, ma che sono poi i finanziamenti ad opere pubbliche come strade o nuove scuole. C’è da esultare? Insomma.

Ma, si dice, questi sono rattoppi. Poi arriverà la Legge di stabilità, la vecchia finanziaria. Così come l’abbiamo trasformata in questi anni, trattasi di solito di una serie ben più ampia di frattaglie contabili messe assieme. Perché le grandi manovre sulla spesa dello Stato si fanno in altro modo, vedi la pur discutibile legge Fornero sulle pensioni.

Peccato, perché c’è estremo bisogno di serietà vera, e non solo formale. Di grandi idee, di provvedimenti forti (un esempio: rivedere il rapporto Stato-Regioni su competenze e spese) che si potrebbero fare con questi numeri in Parlamento. La macchina italiana non si rimetterà in carreggiata cambiando il liquido per i tergicristalli. Non si fa politica industriale inventandosi all’ultimo momento un salvataggio pubblico di Alitalia fatto da… Trenitalia; no, dalle Poste. E perché non dalla Sisal? Sulle scommesse è imbattibile.

Ma l’assunzione di responsabilità la dovrebbero fare tutti, non solo lo Stato, non solo il governo. Cos’hanno fatto le cosiddette parti sociali – in primis Confindustria e sindacati – per traghettare le relazioni industriali dal 1968 al 2020? Finora le abbiamo viste solo piangere aiuti statali. Mentre in Germania sono state le protagoniste di quella rivoluzione economica che ha portato un Paese economicamente fermo (anno 2002) a dominare l’Europa e a competere da vincente in tutto il mondo (anno 2013). Mentre qui c’è un’attesa quasi messianica per il taglio di qualche punto del cuneo fiscale, come se questo – pur giustissimo vista la colossale pressione tributaria attuale – fosse la vera benzina per la ripresa italiana.

Tale andazzo fa sorgere un dubbio: ma siamo sicuri che l’Italia voglia veramente fare qualcosa per bloccare questo suo lento ma inesorabile declino? Se sì, qualcuno batta un colpo.