Attenzione al “Daspo” sull’obiezione di coscienza

Prima di chiedere l’abolizione dell’obiezione di coscienza vale la pena farsi qualche domanda, perché la discriminazione è dietro l’angolo

Non si arrestano gli attacchi all’obiezione di coscienza dei medici. L’ultima, ancora in corso di indagine per riscontrarne la veridicità, è il racconto di una donna che avrebbe girato 23 ospedali tra Veneto, Friuli e Alto Adige per poter interrompere la gravidanza. Così come ha fatto scalpore la decisione dell’Ausl di Rovigo, dove un bando di concorso è stato riservato a biologi che non abbiano sollevato obiezione di coscienza alla fecondazione artificiale. E prima ancora il dibattito si è infiammato dopo la delibera con cui la Regione Lazio ha messo a concorso per l’ospedale San Camillo di Roma due posti da ginecologo prevedendo nel bando che i candidati fossero disponibili a praticare aborti.
Quest’ultima, come già scritto altrove, è una richiesta che parte da una “fake news”, ovvero che non la percentuale di medici obiettori sia tale da non permettere l’esercizio del “diritto all’aborto”. Una situazione ben spiegata da Assuntina Morresi, membro del Cnb, che parte dai dati della relazione sull’applicazione della legge 194 al Parlamento, raccolti struttura per struttura e forniti direttamente dalle Regioni al Ministero, raccolti struttura per struttura. Le cifre, riferite al 2014, “dicono altro”, dice la Morresi: “in media in Italia ogni ginecologo non obiettore esegue 1,6 aborti ogni settimana. Nella Regione Lazio il carico di lavoro medio settimanale per ginecologo non obiettore, rilevato per Asl, è 3,2”. Così, “se tutti i non obiettori effettuassero Ivg, ognuno avrebbe un carico di lavoro che non supera la mezza giornata”.
Ciononostante, si sono moltiplicati gli appelli per limitare, inibire, eliminare la possibilità di non esercitare qualsivoglia pratica che contrasti con la propria coscienza. Il refrain ricorrente è che si tratti di una scelta “gratis”, ovvero senza contropartite, o che non sia giustificato appellarsi alla coscienza quando la legge prevede che il cittadino (la cittadina) si possa avvalere di opzioni garantite dal sistema sanitario. Infine, le due righe più frequenti rilanciano, con poche variazioni, un’unica idea: se non vogliono praticare aborti non facciano i ginecologi. Di tutte, questa è la richiesta più autolesionista. Davvero si rinuncerebbe a un valido professionista, in grado di far nascere migliaia di bambini e di prendersi cura di altrettante mamme, perché non vuole praticare interruzioni di gravidanza? E, conseguenza non secondaria, chi definisce i criteri secondo cui si può fare lo specialista?
Non a caso l’ordine dei medici di Roma è intervenuto nella vicenda del S. Camillo per ricordare che “soltanto ragioni superiori potrebbero consentire di superare il diritto fondamentale di invocare legittimamente l’obiezione di coscienza in determinate situazioni e queste ragioni superiori non ci risulta esistano”.
Se l’eventuale obiezione di coscienza diventasse giusta causa di recesso dell’Azienda, per prestazione lavorativa oggettivamente inesigibile, si porrebbero le basi per discriminazioni senza fine in innumerevoli contesti. Per esempio, quanti sarebbero i ricercatori licenziabili dall’università se maturassero la decisione di smettere di fare sperimentazioni con gli animali? Si abdicherebbe al loro bagaglio di conoscenza, di esperienza, di risultati, oppure li si destinerebbe ad altra sezione di ricerca non in conflitto con la loro coscienza?
E ancora, se fosse approvata una legge che permette l’eutanasia a richiesta e il contrattualismo invece dell’alleanza terapeutica, il medico che si rifiutasse di aderire alla volontà del paziente potrebbe perdere il lavoro? Si arriverà a invocare, analogamente ai ginecologi, una sorta di Daspo sanitario tale per cui si potrebbe leggere che “se non voleva far morire le persone quando lo desiderano non doveva fare l’anestesista/il neurochirurgo/l’internista?”. Oppure le aziende sanitarie comincerebbero ad emanare bandi che prevedano l’assunzione di medici “disponibili” a praticare l’eutanasia? Chi si rifiutasse di praticare aborti o eutanasia non potrebbe più lavorare in una struttura pubblica? Davvero questo sarebbe il modo giusto per tutelare “i diritti”?
Si dovrebbe fare molta attenzione prima di invocare l’abolizione dell’obiezione di coscienza, soprattutto in campo sanitario. Stante che non risulta che tutti gli operatori sanitari obiettori di coscienza siano ferventi cattolici, e al netto di chi l’ha considerata una scorciatoia per qualcos’altro – esemplari di umanità poco seri presenti in tutte le professioni -, resta l’ipotesi, poco considerata, che ci sia comunque una gran parte di persone che, laicamente e razionalmente, ritiene giusto e doveroso non interrompere la vita di un altro, piccolo o grande che sia. E per questo devono smettere di fare il loro lavoro?