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Attanasio, la verità un anno dopo: «L’impegno per l’Africa continua»

Dal sacrificio dell'ambasciatore, ucciso in un agguato con il carabiniere di scorta e l'autista, nasce la Fondazione Mama Sofia per portare avanti progetti umanitari in Congo

Gli orfani di Luca sono tanti, ma nel frattempo la sua famiglia si è allargata. Un anno fa moriva in un agguato, sulla strada verso Goma, l’ambasciatore Luca Attanasio, insieme al carabiniere della sua scorta, Vittorio Iacovacci, e all’autista Mustapha Milambo. Oggi la Fondazione Mama Sofia, presieduta dalla moglie Zakia Seddiki, è sempre più presente nella Repubblica democratica del Congo, attraverso progetti e iniziative diverse, dalla clinica mobile per i bimbi di strada all’ambulatorio medico, fino al sostegno per la maternità. Lo fa attraverso i volti di tanti sostenitori e amici di Luca, che ne testimoniano ancora oggi la visione e che ne sono la concreta eredità sul territorio. «Vogliamo tradurre in interventi concreti i valori e gli intenti in cui io e mio marito abbiamo sempre creduto – ha detto Zakia –. Nella vita e nella carriera, Luca ha dimostrato che con la passione e il coraggio si possono restituire dignità e gioia a tanti giovani che non hanno di fronte a loro un orizzonte sereno. La Fondazione Mama Sofia nasce per lottare contro ogni situazione di disagio, marginalità, discriminazione, intolleranza e negazione dei più elementari diritti umani e di tutela dei minori».

Il riscatto e l’imboscata

Proprio domenica è filtrata, ad opera della Procura di Roma, la prima ricostruzione dei fatti, che completa il mosaico sulle responsabilità di quanto accaduto la mattina del 22 febbraio 2021, per i quali sono accusati di omicidio colposo, tra gli altri, anche due funzionari del Pam, il Programma alimentare mondiale. Il gruppo di banditi che assalì il convoglio, che procedeva senza auto blindate e senza le minime condizioni di sicurezza imposte da quella missione, avrebbe chiesto 50mila dollari. I passeggeri non avevano quel denaro e l’imboscata si trasformò subito in un tragico tentativo di sequestro a scopo di estorsione. Nel corso dell’interrogatorio reso agli inquirenti, il vicedirettore del Pam a Kinshasa, Rocco Leone, uno dei due indagati del Programma alimentare dell’Onu, ha spiegato di aver dato «tutto quello che avevo, 300-400 dollari, e il mio telefonino. Anche l’ambasciatore ha cominciato a togliersi le cose che aveva indosso, sicuramente il portafogli e forse l’orologio – ha spiegato –. Ho detto a Iacovacci di stare calmo e di non prendere la pistola, forse gliel’ha detto anche l’ambasciatore». Dal canto suo Mansour Luguru Rwagaza, il responsabile della sicurezza, anch’egli coinvolto nell’indagine, ha raccontato che i banditi «hanno intimato di consegnare i soldi, altrimenti ci avrebbero portati nella foresta e poi avrebbero chiesto un riscatto. Ho detto a Rocco Leone che dovevamo cooperare». I due, nella ricostruzione dell’inchiesta sulla preparazione della missione, sono accusati di avere «attestato il falso, al fine di ottenere il permesso dagli uffici locali del Dipartimento di sicurezza dell’Onu». Nella richiesta di autorizzazione, al posto dei nominativi di Attanasio e Iacovacci, sono stati infatti inseriti i nomi di due dipendenti del Pam, «così da indurre in errore gli uffici in ordine alla reale composizione del convoglio e ciò in quanto non avevano inoltrato la richiesta, come prescritto dai protocolli Onu, almeno 72 ore prima». Inoltre, non è stata data alcuna informazione, nei canonici cinque giorni prima del viaggio, alla missione di pace Monusco «che è preposta a fornire indicazioni specifiche in materia di sicurezza». Per questo mancavano ad esempio una scorta armata e veicoli corazzati.

Le ultime ore

Sugli ultimi attimi di vita dei tre uomini uccisi nel nord Kivu, non mancano ovviamente parti da chiarire, come ad esempio lo scontro a fuoco con i militari e le guardie del parco giunti a sorpresa nel bosco dove i banditi stavano conducendo gli uomini della missione a scopo di riscatto. Aspetti che andranno appurati con precisione nei prossimi mesi, una volta che sarà avanzata da Piazzale Clodio la richiesta di rinvio a giudizio per gli indagati, verosimilmente a metà marzo. «Quel giorno dovevo essere insieme a Luca» ha raccontato la moglie, a proposito delle ultime ore del marito. «Mia moglie ha deciso che bisogna essere ambasciatori e rappresentanti dello Stato. Insieme – sosteneva l’ambasciatore Attanasio nel discorso pronunciato nel 2020 ritirando il Premio internazionale Nassiriya per la pace –. Per questo viviamo in Congo e insieme rappresentiamo lo Stato in tutte le sue varie forme». L’opera di aiuto e solidarietà continua, anche a un anno di distanza da quella tragedia.

da avvenire.it