Cultura

Astor Piazzolla, un secolo da “Libertango”

L’11 marzo 1921 nasceva il genio musicale argentino. Con il suo bandoneón ha stregato il mondo. A Roma compose il suo brano più noto. «Il mio non è tango, è la musica contemporanea di Buenos Aires»

Oblivion. Por una cabeza. Libertango. La prima sera del Festival di Sanremo sul palco dell’Ariston vanno in scena i due estremi della storia del tango, Carlos Gardel e Astor Piazzolla. Tradizione e rivoluzione, per i puristi del genere, ordine e caos. Visto da Buenos Aires il medley della Banda della Polizia di Stato suona come un omaggio anticipato ai 100 anni di un genio ossessivo e rissoso, «camorrero e testarudo», come si dice da queste parti di chi ha il sangue italiano e la capoccia dura. Se Por una cabeza di Carlos Gardel è Al Pacino che balla in Profumo di Donna (il remake, non l’originale di Dino Risi), l’incedere sincopato di Piazzolla rimane così attuale da incarnare perfino la paranoia distopica di L’Esercito delle 12 scimmie, di Terry Gilliam.

«Il mio non è tango, è la musica contemporanea di Buenos Aires» rispondeva El Gato Astor ai tangueros della vecchia guardia che snobbavano le sue partiture lunghe e complesse, inutili per le sale da ballo. Si dice che Jorge Luis Borges, maligno, lo chiamasse “Astor Pianola”: ma questo a Piazzolla, il “nemico dei piedi” come si definiva, non interessava. La sua era una rivoluzione, e le rivoluzioni – dicevano – non sono cene di gala.

Imbracciando quella stramba fisarmonica detta bandoneón, nata in Germania a metà ’800 e sbarcata coi marinai nei bordelli del Rio de la Plata, infrange i dogmi di un tango ormai ingessato e caricaturesco, contaminandolo con batteria, chitarra elettrica, organo Hammond, le improvvisazioni di Gerry Mulligan e i riverberi prog-rock alla Emerson, Lake & Palmer. Un eretico insomma, come lo furono Charlie Parker, Dizzy Gillespie e Thelonious Monk, colpevoli di aver sparigliato le melodie del cool jazz con il demone frenetico del bepop.

Nato oggi, 11 marzo di cento anni fa in un retrobottega di Mar del Plata, cresce nella New York romantica e violenta della Grande Depressione, sbirciando gli show di Cab Calloway dalla porta del Cotton Club e strimpellando George Gershwin con un bandoneón usato, regalo di papà Vicente detto Nonino, barbiere nell’East Side di Manhattan e fabbricante di whisky clandestino. Con la coppola in testa e i pantaloni corti il “pibe Astor” sembra il Noodles ragazzino di C’era una volta in America: a 13 anni compare nel film El dia que me quieras a fianco di Carlos Gardel. Passato e futuro del tango, insieme sulla pellicola, divisi dal destino.

Tra i miti piazzolliani, l’invito di Gardel a seguirlo nell’ultima tragica tournée, finita con il rogo del suo trimotore sulla pista di Medellin. «Sembra che il destino nomini sempre alcune riserve, nel caso gli manchino i titolari» scrive Julio Cortázar ne Il Persecutore, romanzo breve uscito nel 1959, anno in cui Piazzolla ritorna a New York, convinto di poter fare l’America scrivendo colonne sonore per il cinema. Errore. Rapita dalle avanguardie di Miles Davis (Kind of Blue), John Coltrane (Giant Steps), Charles Mingus (Ah Hum) e Ornette Coleman (The Shape of Jazz to Come), la Grande Mela non ha tempo per lui.

Sono anni di fame, ci racconta al telefono suo figlio Daniel: per tornare a Baires (biglietto solo andata su nave cargo, in perfetto stile emigrante) suo padre deve cedere i diritti della struggente Adios Nonino. Come il Johnny Carter di Cortázar (ispirato in verità a Charlie Parker) rifiuta però ogni compromesso. Vede e insegue la musica che ancora non ha scritto, «come una lepre che insegue una tigre che dorme».

Nell’Argentina di fine anni ’60, durante il regime nazionalista e bigotto del Generale Onganía, le sue sperimentazioni diventano sinonimo di novità e rottura. Mentre a Buenos Aires si leggono gli autori del Boom latinoamericano e l’immoralità di Manuel Puig minaccia l’integrità dei ragazzi di buona famiglia, sempre più spesso capelloni, il tremendo successo di Balada para un loco (1969), un po’ tango e un po’ valzer, indigna quei tradizionalisti che per Piazzolla «non si sono mai evoluti, che si chiudono nel mito del tango e non escono da lì».

Il continuo conflitto con una società contraddittoria, avida di progresso e allo stesso tempo conservatrice, diventa presto insostenibile. Nel 1973, l’infarto che lo porta a rifugiarsi in Italia: «me ne vado perché a Buenos Aires sono uno dei tanti disoccupati che riempiono le strade». Comincia così, con un esilio pieno di frustrazione, la tappa della definitiva svolta internazionale. Rinchiuso nel loft romano di Via dei Coronari compone nientemeno che Libertango, il suo disco più famoso, inciso nel 1974 a Milano sotto l’ala del manager e amico Aldo Pagani, artefice delle successive collaborazioni con Mina, Milva e il sax baritono Gerry Mulligan.

Il cinema è la nuova frontiera dello storico (e per qualcuno blasfemo) Ottetto Elettronico, che spesso include suo figlio Daniel al sintetizzatore: Cadaveri Eccellenti di Francesco Rosi, Lumiere di Jeanne Moreau, Enrico IV di Marco Bellocchio, con Marcello Mastroianni e Claudia Cardinale, Piove su Santiago del cileno Helvio Soto, con Jean Luis Trintignant, e L’esilio di Gardel, manifesto post-dittatura di Pino Solanas del 1985, in cui Piazzolla ricicla una partitura scritta durante la Guerra delle Malvinas, in origine intitolata – si dice – a Los Lagartos della Marina, l’unità comandata dall’Angelo della Morte Alfredo Astiz.

Basta questo per accusarlo di opportunismo politico e rinfacciargli la sua ambiguità nei confronti di Augusto Pinochet (Borges ci perse un Nobel), i temi composti per il Mundial 1978 (cosa che in fondo fece anche Ennio Morricone), e un noto pranzo ufficiale alla Casa Rosada, alla tavola di Videla, in compagnia di letterati come Adolfo Bioy Casares, Borges (recidivo) e persino Ernesto Sabato, futuro simbolo delle ricerche sui desaparecidos. Eppure, assicura lo psicanalista Carlos Kuri, studioso della sua opera, «Piazzolla è stato l’agente dell’ultima mutazione del tango, il creatore di una delle poche musiche realmente differenti e capaci di proliferare a livello globale. Una delle poche musiche sovversive che l’Argentina ha prodotto nella sua storia».

da avvenire.it