Nel mondo i malati di Alzheimer sono circa 47 milioni ma secondo il World Alzheimer Report 2015 saranno 131,5 milioni nel 2050. In Italia sono circa 600mila (ma il totale delle persone colpite da demenza è il doppio) e si tratta di una patologia “silente”, inizialmente priva di sintomi ma che può lavorare anche per 15-20 anni distruggendo progressivamente e irreversibilmente i neuroni. Quando appaiono i primi segnali è troppo tardi e non c’è più molto da fare.
Per questo non si può perdere tempo: prevenzione e diagnosi precoce sono strategiche.
Si fonda su questo presupposto il progetto “Train the Brain” (Allena il cervello) ideato dal neurofisiologo Lamberto Maffei, presidente emerito dell’Accademia nazionale dei lincei, che ha lavorato con la scienziata Rita Levi Montalcini. Il protocollo, applicato e diffuso dalla Fondazione Igea, è stato sperimentato per quattro anni presso gli Istituti di fisiologia clinica e di neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche in collaborazione con l’Università di Pisa, e i risultati sono stati pubblicati su PubMed e su Scientific Reports della prestigiosa rivista scientifica internazionale Nature. Il crescente problema della demenza e dell’Alzheimer è stato portato anche all’attenzione del G7 tenuto in Italia nel maggio 2017. In quell’occasione le Accademie scientifiche dei principali Paesi del mondo, riunite all’Accademia dei Lincei, hanno segnalato il rischio di un uno “tsunami” neurologico. Alla vigila della solenne chiusura dell’Anno accademico, in programma domani alla presenza del capo dello Stato Sergio Mattarella, abbiamo parlato di “Train the Brain” con lo stesso Lamberto Maffei, che per l’occasione terrà una conferenza su “Ambiente e cervello, un dialogo continuo”, e con Giovanni Anzidei, vicepresidente della Fondazione Igea.
Professor Maffei, come nasce il progetto?
Il protocollo “Train the brain” non è invasivo e non prevede impiego di farmaci: si basa sulla plasticità del cervello, ossia la capacità dei circuiti neuronali e delle sinapsi di adattarsi agli stimoli e quindi anche ai cambiamenti causati dalle patologie incipienti o dall’invecchiamento, che possono essere controbilanciati.
Per ottenere questo benefico adattamento è necessario stimolare il cervello. A questo fine il protocollo prevede, sotto il controllo di medici neurologi e psicologi, controlli clinici, attività cognitive, razionali, logiche, mnemoniche, creative ed emozionali, accompagnate con attività fisiche per migliorare la circolazione del sangue e quindi anche l’afflusso al cervello.
Una sorta di allenamento come quello volto a mantenere la tonicità dei muscoli?
Sì, come indica il nome del protocollo, si tratta di un vero allenamento. Il cervello è un organo come tutti gli altri e con il passare degli anni invecchia e può perdere tonicità. Allenarlo è importante per mantenere attiva la mente e rallentare la perdita cognitiva.
Quanti pazienti sono stati coinvolti e con quali criteri sono stati selezionati?
I soggetti coinvolti sono stati circa duecento, selezionati da oltre mille persone segnalate dai medici di base. Attraverso test neuropsicologici è stata fatta a tutti la valutazione dello stato cognitivo, primo passo per una diagnosi precoce, e successivamente le persone che presentavano un deficit sono state sottoposte ad esami clinici tramite i quali sono stati individuati i soggetti a rischio, quelli con i primi sintomi lievi o moderati della malattia, in termine medico gli Mci (Mild Cognitive Impairment). Questi sono stati divisi in due gruppi casuali, metà sottoposti al Train the Brain, l’altra metà, che costituiva il gruppo di controllo, ha continuato la vita normale per poter valutare le differenze al termine del trattamento.
In che periodo si è svolta la sperimentazione e con quali risultati?
La prima applicazione del protocollo si è svolta dal 2010 al 2014. L’80% dei pazienti che ha partecipato mostra un significativo miglioramento cognitivo – del restante 20% la stragrande maggioranza è stabile e solo due sono peggiorati.
I soggetti non sottoposti al trattamento presentano invece, nello stesso arco di tempo, un peggioramento rilevante. I trattamenti hanno fatto registrare nei pazienti che hanno partecipato anche variazioni della funzionalità cerebrale e vascolare, tra cui un aumento dell’afflusso sanguigno nel cervello e una miglior risposta cerebrale a compiti impegnativi. I familiari riferiscono anche di un loro maggiore coinvolgimento nella vita familiare e nelle attività quotidiane. Gli stessi pazienti esprimono gradimento per l’intervento e molti chiedono di poter tornare per un ciclo successivo.
Ma il progetto è utile come prevenzione anche alle persone sane e a quelle che non presentano sintomi ma che dopo i 50 – 55 anni potrebbero essere a rischio.
Dottor Anzidei, quali sono ruolo e obiettivi della Fondazione Igea?
Costituita per promuovere e sostenere la diffusione di “Train the brain”, la Fondazione è impegnata nella fase di diffusione e applicazione clinica per rendere il protocollo disponibile a tutte le persone che possano averne bisogno, soggetti a rischio che presentano i primi sintomi, individuati tramite diagnosi precoce. Ulteriore importante obiettivo è far conoscere a tutti i medici e a tutti i cittadini le recentissime innovazioni per contrastare le patologie neurodegenerative, spesso ancora sconosciute ai medici meno giovani. Proprio perché si tratta di una patologia per anni silente, è importante diffondere la cultura della prevenzione. Solo così si può tentare di contrastare l’invecchiamento del cervello e allontanare il rischio di patologie.
A quali strumenti pensate, in concreto?
È necessario creare nuovi centri di applicazione come quello recentemente realizzato su iniziativa della nostra Fondazione presso l’Università La Sapienza di Roma, che ha avviato uno studio su “Effetti della stimolazione cognitiva nel ritardare la progressione del decadimento cognitivo nelle fasi prodromica o precoce della malattia di Alzheimer”. So che anche in Sardegna stanno cercando di avviare una applicazione del “Train the brain”. La prevenzione è importante anche dal punto di vista economico: secondo il ministero della Salute i costi di un malato di Alzheimer ammontano a oltre 50 mila euro l’anno, molti a carico delle famiglie, e per l’oltre un milione di malati di demenza che ci sono in Italia il costo complessivo annuo raggiunge varie decine di miliardi di euro. Siamo abituati a fare controlli dall’ortopedico, dall’oculista, dal dermatologo… ma non controlliamo mai il cervello che è l’organo più importante.
Con una campagna di informazione e prevenzione si potrebbero viceversa individuare molti casi di persone a rischio e aiutarli a contrastare e ritardare la malattia quando si è ancora in tempo.