A proposito di Ceta

Ben venga l’apertura del mercato canadese. In un contesto di Unione europea, però, che apprezzi e tuteli la qualità e la salubrità, e non la semplice “libertà dei commerci” come valore principale per il vantaggio del consumatore

Difendersi, conquistare. Cercare di vendere i propri prodotti in tutti i mercati e, al contempo, evitare che la concorrenza li imiti e ti faccia una guerra dalla quale difficilmente uscirai vincitore. È il destino di alcune produzioni agroalimentari italiane che sono uniche al mondo, di pregio assoluto, ma che non hanno lo spazio che si meritano perché quello spazio se lo prendono altri, con metodi tra il furbo e il fraudolento.
Il recente accordo commerciale tra Unione europea e Canada (Ceta) ha posto nuovamente alla ribalta questo problema. Il prosciutto crudo di San Daniele o di Parma è tale perché si fa a San Daniele del Friuli o a Parma, non nell’Ontario. Ma se qualche grosso produttore canadese nel frattempo ha registrato lì quel marchio commerciale – in accordo con le regole del posto – o ha conquistato il mercato con un Parmesan grattugiato, un Prosekko fatto con uve cilene, una Mozzarella Napoli che manco sa dove sta Napoli (ammesso che nella città partenopea si faccia una sola mozzarella), la questione si fa difficile. Benvenuti questi trattati, se la rendono più facile.
Abbiamo un bagaglio eno-gastronomico unico al mondo, sia per varietà che per qualità. Una capacità eccezionale di fare prodotti buoni e salubri, che il mondo ci invidia. E ci imita a piè sospinto. Basta chiamare il prodotto come quello italiano, o che suoni così. Basta appoggiarsi alle politiche protezionistiche che ogni Paese più o meno velatamente conserva per tutelare i propri campioni nazionali; alla capacità che hanno i locali di conoscere il mercato interno molto meglio di qualche singolo venditore emiliano o siciliano; di pubblicizzarsi; soprattutto di appoggiarsi alle reti di vendita sul territorio… E così decine di miliardi di euro finiscono nei fatturati di improbabili aziende di prodotti “italiani” in realtà danesi, americane, francesi, rumene, spagnole.
Il danno non è solo quello di perdere soldi, ma – peggio – la faccia, la reputazione del prodotto. Il Parmigiano ha quell’eccezionale sapore perché è fatto in quel modo lì; se facciamo dell’orribile cacio da grattugiare con stagionature ridicole, otterremo prodotti che col Parmigiano nemmeno si salutano per strada. Ma per i consumatori locali sarà facile assimilarli.
È un po’ l’effetto-Cina qui da noi. A frequentare i ristoranti cinesi in Italia, si ha (troppo) spesso l’impressione che sia una cucina di prodotti di qualità scadente, e di gusto da fast food. Mentre le tante cucine cinesi (è un continente, quel Paese) raggiungono livelli di raffinatezza da primi posti nel mondo.
I vari trattati commerciali che faticosamente si stanno preparando in questi anni, stanno appunto cercando di sanare alcune storture. Per carità: rischiando di crearne altre, ad esempio lasciando le porte aperte a prodotti che hanno standard sanitari non accettabili per noi. Ben venga l’apertura del mercato canadese per i nostri salumi e formaggi, quelli veri. In un contesto di Unione europea, però, che apprezzi e tuteli la qualità e la salubrità, e non la semplice “libertà dei commerci” come valore principale per il vantaggio del consumatore. Riguardo a quello che mettiamo in bocca, il miglior prezzo non è sempre il miglior parametro.