68. “Deus caritas est”. «Amore, l’esperienza che non delude».

«Amore, l’esperienza che non delude, che accoglie fin dall’inizio, che accompagna fino alla felicità dell’anima. L’Agape, la novità dell’amore cristiano».

«L’Unità dell’amore nella creazione e nella storia della salvezza», è il titolo della prima parte dell’importante Enciclica che apre il Pontificato di S. S. Papa Benedetto XVI. Già nel titolo, al termine amore, viene subito associata una qualità e una funzione: la forza del tenere insieme che supera la riduttiva ottica del semplice aggregare, la presenza costante e continuativa che mai delude, mai abbandona, che, soprattutto, guida la creatura singolarmente intesa e inserita in una comunità, verso un obiettivo ben preciso, la sua salvezza, ovvero la sua felicità.

Soffermarsi sul titolo permette quindi di inquadrare temi importanti legati all’esperienza d’amore che la fede cristiana riconosce come essenziale, si tratta cioè di cogliere, già nelle premesse, aspetti qualificanti la riflessione successiva che, però, deve essere preparata da una corretta interpretazione terminologica. È proprio su questa fase propedeutica che l’Enciclica si sofferma. Sembrerebbe, a prima vista, una semplice sezione di chiarimento, in realtà, approfondendo, si rimane coinvolti in una riflessione importante che aiuta a fare chiarezza e a crescere in consapevolezza circa il tema dell’amore.

Spiegare i termini, significa preparare l’animo a comprendere i significati profondi. Passi importante perché, afferma il Papa «(…) Il termine “amore” è oggi diventato una delle parole più usate ed anche abusate, alla quale annettiamo accezioni del tutto differenti. (…) non possiamo semplicemente prescindere dal significato che questa parola possiede nelle varie culture e nel linguaggio odierno» (n. 2). L’amore è prima di tutto trasversale ad ogni campo dell’esperienza umana. Non si può vivere senza amore, se infatti ci chiudessimo ad essa perderemmo la “sostanza” di noi stessi, non potremmo riconoscerci neanche come esseri umani. Umanamente parlando, e forse non solo, vivere è connaturato ad amare, amare è connaturato a vivere.

Il Papa però si sofferma su una forma d’amore che ritiene particolare, quello tra un uomo e una donna, dove «(…) corpo e anima concorrono inscindibilmente e all’essere umano si schiude una promessa di felicità che sembra irresistibile, emerge come archetipo di amore per eccellenza, al cui confronto, a prima vista, tutti gli altri tipi di amore sbiadiscono» (n. 2). A questo punto il campo è pronto ad una cruciale domanda. Il Papa pone un interrogativo denso di profonde implicazioni: le varie forme di amore si unificano ed è quindi fondata l’idea che l’amore è uno solo, oppure la stessa parola è usata per indicare realtà diverse? Domanda alla quale, nel seguito, l’Enciclica fornirà un’articolata risposta a cui però occorre giungere traversando importanti “strade” concettuali. Bisogna quindi procedere in quest’opera di precisazione terminologica.

Per esprimere il rapporto tra Gesù e i suoi discepoli il Nuovo Testamento usa una parola che indica una particolare forma d’amore, quella legata all’amicizia, la cosiddetta “philia” greca, differente dall’idea di “eros” che invece si riferisce più al rapporto tra uomo e donna, termine usato due volte nell’Antico Testamento e mai usato nel Nuovo. La novità del cristianesimo è però legata all’esperienza dell’agape, particolarmente privilegiata dal testo neotestamentario, perché qualifica l’amore cristiano.

Alla critica Illuminista e di un importante filosofo, Friedrich Nietzsche, per cui la Chiesa avrebbe ucciso lo spirito dell’eros, rendendo impossibile la cosa più bella della vita, il Papa risponde con una riflessione di carattere storico: «I greci – senz’altro in analogia con altre culture – hanno visto nell’eros innanzitutto l’ebbrezza, la sopraffazione della ragione da parte di una “pazzia divina” che strappa l’uomo alla limitatezza della sua esistenza e, in questo essere sconvolto da una potenza divina, gli fa sperimentare la più alta beatitudine. (…) Nelle religioni questo atteggiamento si è tradotto nei culti della fertilità, ai quali appartiene la prostituzione “sacra” che fioriva in molti templi» (n. 4).

Si tratta, in ultima analisi, di un’idea che sfocia in perversione della religiosità. La questione non è quindi mettere in discussione o attribuire all’idea di eros qualcosa di negativo, ma mettere in discussione «(…) la falsa divinizzazione dell’eros» tanto negativa da disumanizzarlo. «Infatti, nel tempio, le prostitute, che devono donare l’ebbrezza del Divino, non vengono trattate come esseri umani e persone, ma servono soltanto come strumenti per suscitare la “pazzia divina”: in realtà, esse non sono dee, ma persone umane di cui si abusa.

Per questo l’eros ebbro ed indisciplinato non è ascesa, « estasi » verso il Divino, ma caduta, degradazione dell’uomo. Così diventa evidente che l’eros ha bisogno di disciplina, di purificazione per donare all’uomo non il piacere di un istante, ma un certo pregustamento del vertice dell’esistenza, di quella beatitudine a cui tutto il nostro essere tende» (n. 4).