57. “Evangelium Vitae”. Il Messaggio cristiano sulla vita

«Il Vangelo della vita non è una semplice riflessione, anche se originale e profonda, sulla vita umana; neppure è soltanto un comandamento destinato a sensibilizzare la coscienza e a provocare significativi cambiamenti nella società; tanto meno è un’illusoria promessa di un futuro migliore. Il Vangelo della vita è una realtà concreta e personale, perché consiste nell’annuncio della persona stessa di Gesù».

Una riflessione sulla vita è un percorso lungo e inteso. Non si tratta di affrontare la questione pur con una elaboratissima elucubrazione mentale, ma di andare oltre, solo infatti a partire dalla vita stessa, e quindi dal suo riferimento concreto e sperimentabile, che si può parlare della problematica con una minima ma qualificata consapevolezza. Potremmo dire, per usare una metafora, che in fondo è un viaggio, solo chi lo compie ne può parlare in modo opportuno, un viaggio dell’anima stessa.

Il Papa indica un riferimento sicuro in questo viaggio, una sorta di porto franco a cui guardare e che si chiama Gesù, il Figlio di Dio, Colui che afferma di essere Via, Verità e Vita. L’unico che può rispondere alle domande di senso, l’unica che ha “parole di vita eterna”. Quale valore dare quindi alla vita? Dall’insegnamento di Gesù ben si comprende la risposta: «(…) assumere e realizzare in pienezza la responsabilità di amare e servire, di difendere e promuovere la vita umana» (n. 29). È nel Vangelo della vita, conoscibile nei suoi tratti essenziali dalla ragione umana, che emerge l’annuncio certo e provocatorio, è in esso infatti che «(…) la vita fisica e spirituale dell’uomo, anche nella sua fase terrena, acquista pienezza di valore e di significato» (n. 30).

Salvaguardia dell’Identità, garanzia di un Progetto pensato e da scoprire, certezza del sostegno nelle difficoltà ma anche l’affidarsi completamente ad un messaggio che supera e provoca la ragione, ecco le coordinate di fondo che qualificano il vissuto di chi sceglie di rispettare e servire la vita. Un’idea già presente nell’Antico Testamento quando il popolo di Israele è chiamato a raggiungere un obiettivo, maturare la sua identità di popolo di Dio, segno della Sua misericordia sulla terra. Quando Abramo lascia tutto perché il Signore, senza specificare altro, gli chiede di incamminarsi verso l’ignoto, quando lo stesso suo figlio è la vittima sacrificale che il Signore si è scelto, siamo di fronte all’inconcepibile per l’umano. Quale salto allora Dio chiede all’uomo in riferimento alla tutela e al servizio della vita?

Il salto della fede anche contro la ragione, l’affidarsi all’amore piuttosto che alla razionalità in senso stretto, perché l’uomo è sempre «(…) l’oggetto di un tenero e forte amore da parte di Dio» (n. 31). In tal modo l’uomo promuove la sua autocoscienza, soprattutto riferita alla dignità di cui implicitamente gode, la stessa che scaturisce da «(…) il germe di vita immortale posto dal Creatore nel cuore degli uomini». Tale è quell’elemento irriducibile che generazioni di filosofici hanno cercato, il germe immortale che vive in ogni più piccola e nascosta parte del Creato come nella più grande. Il germe immortale che rende tutti uguali di fronte all’Immensità di Dio. Se l’infinitamente grande penetra nel cuore di ogni uomo, come distinguere vite di serie A e vite di serie B?

L’esperienza del confronto con l’ignoto e l’affidarsi alla chiamata è proprio di tutti e ciascuno, poveri o ricchi, sani o malati, belli o brutti, tutti, indistintamente. Dio conferisce lo stesso valore a ciascuno, anche perché altrimenti che senso avrebbe che «“I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella” (Lc 7, 22). (…) così quanti soffrono per un’esistenza in qualche modo “diminuita”, ascoltano da lui la buona novella dell’interesse di Dio nei loro confronti ed hanno la conferma che anche la loro vita è un dono gelosamente custodito nelle mani del Padre» (cf. Mt 6, 25-34).

In Gesù tutti quindi, ma in modo particolare i malati, i deboli, i poveri, gli emarginati, scoprono che sono portatori della stessa dignità, stessi diritti e doveri per i ricchi e per i “fortunati”. Le parole di Gesù toccano il senso stesso della vita nelle sue dimensioni morali e spirituali. «Solo chi riconosce che la propria vita è segnata dalla malattia del peccato, nell’incontro con Gesù Salvatore può ritrovare la verità e l’autenticità della propria esistenza, secondo le sue stesse parole: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi”» (Lc 5, 31-32). Chi, invece, come il ricco agricoltore della parabola evangelica, pensa di poter assicurare la propria vita mediante il possesso dei soli beni materiali, in realtà si illude: essa gli sta sfuggendo, ed egli ne resterà ben presto privo, senza essere arrivato a percepirne il vero significato: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?» (Lc 12, 20).2 n. 32.