La messe del Signore ha bisogno di operai. 25 anni di sacerdozio per don Giovanni Crisostomo

Lo scorso 26 luglio, don Giovanni Crisostomo Uwimana, sacerdote ruandese impegnato nella diocesi di Rieti in cooperazione missionaria, secondo la convenzione tra le Chiese, ha festeggiato venticinque anni di sacerdozio, circondato dall’affetto dei parrocchiani e amici di Sant’Anatolia, Spedino, Corvaro, Vazia, Roma e Terni, in una liturgia di ringraziamento presso il Santuario di Sant’Anatolia di Borgorose. Per lui, anche un incontro con papa Francesco insieme ad altri 10 confratelli connazionali

È stato un bel momento di festa quello per i 25 anni di don Giovanni Crisostomo Uwimana. Un lieto evento vissuto dal sacerdote originario del Rwanda – paese africano tristemente famoso per il genocidio del 1994 – con i fedeli e alcuni confratelli della zona pastorale del Cicolano.

Ma la messa celebrata con loro il 26 luglio, presso il Santuario di Sant’Anatolia di Borgorose, era stata preceduta da altri due eventi importanti: una messa con i sacerdoti della nazione di don Giovanni, concelebrata il 20 giugno, e l’incontro con papa Francesco ai margini dell’udienza del giorno successivo. Nelle foto del giorno si vedono don Giovanni e il Papa che ridono: che cosa gli avrà detto, chi ha fatto sorridere chi?

«Tutti i miei amici e confratelli mi hanno fatto questa domanda», spiega don Giovanni. «Ma il papa cosa può dire solo a me? Eravamo partiti come gruppo di 11 sacerdoti ruandesi in giubileo d’argento, sulla foto ne mancano due. Il sorriso del Papa viene da una battuta facile e molto profonda: “25 anni di sacerdozio, che pazienza! La vostra certo, ma anche quella della Chiesa che ci sopporta”».

Don Giovanni, come hai “scoperto” la tua vocazione?
Non lo so! Forse c’è una predestinazione, forse il segreto della mia chiamata è nel mio nome, in realtà un cognome che non condivido con nessuno a casa mia: Uwimana (Uw’Imana). Nella lingua del Rwanda, Dio si dice Imana. In italiano Uwimana si potrebbe tradurre come «chi appartiene a Dio». Vuol dire essere allo stesso tempo una proprietà e una grazia di Dio. Sono nato nell’ottobre 1963, sono stato anche il primo a frequentare la scuola elementare del villaggio, nel settembre 1970. Non ero ancora stato battezzato, ma ero stato educato cristianamente dai miei. Ho fatto il mio cammino catecumenale e ho scelto da solo il nome Giovanni Crisostomo per il mio battesimo. Era il 15 aprile 1975. Nel 1976 fu eretta l’arcidiocesi di Kigali: sono stato scelto tra i primi a frequentare il suo nuovo seminario minore per la scuola media e superiore. Dopo la maturità classica, ho fatto un anno propedeutico del seminario maggiore e quindi il seminario maggiore per sei anni, due anni di tirocinio di educazione ai giovani in una scuola secondaria. Sono stato ordinato il giorno dei Santi Gioacchino e Anna, il 26 luglio 1992, avevo 28 anni. Posso dire francamente che la mia è stata prima una vocazione alla vita, poi alla vita cristiana e infine una risposta a una necessità, un ministero, un servizio alla comunità: non per la promozione puramente umana, ma per la vita eterna, il Regno di Dio. Mia madre e la comunità di Gishaka hanno pregato tanto perché il Signore mi mandasse nella sua messe, come operaio, Io prego per riuscire a farci qualcosa.

Hai avuto dubbio che potesse essere una scelta sbagliata?
Non ho mai dubitato sull’autenticità della mia vocazione, e nelle mie lettere-suppliche ho sempre sottolineato la mia buona coscienza e la mia conoscenza e la mia libertà. Consapevole che la messe del Signore ha bisogno di operai, ho dato la mia disponibilità. Alla mia ordinazione è legata anche la fondazione della parrocchia del mio villaggio: il rappresentante della mia comunità fece una richiesta per la fondazione dell’attuale parrocchia. Il vescovo gli rispose grosso modo così: «Per una parrocchia servono i sacerdoti, i parroci. La chiesa mi propone i candidati da ordinare. Per questo facciamo un contratto, datemi un figlio da ordinare, vi do una parrocchia». «Abbiamo un seminarista – rispose il rappresentante della comunità – se potesse anticipargli l’ordinazione saremmo felicissimi». In quel momento ho capito che il sacerdozio è un’inclinazione da compiere davanti a Dio per il bene degli uomini. È un motivo di orgoglio sentire dire che la mia ordinazione sacerdotale ha generato una parrocchia, che festeggia anche essa 25 anni dalla sua fondazione, il giorno dalla mia prima messa al paese, il 27 luglio 1992.

Quali sono stati i momenti più belli e quali i più difficili di questi 25 anni?
Per me non c’è contraddizione tra bello e difficile. Ho completato gli due ultimi anni di formazione sacerdotale durante la guerra. Era già iniziata poco dopo la visita di papa Giovanni Paolo II, nel 1990. Anche nel seminario maggiore non mancavano conflitti tra i sostenitori della guerra di liberazione e quanti si opponevano. Serviva tanto spirito per resistere a prendere parte: momenti difficili e molto belli per la testimonianza cristiana. Appena ordinato, sono stato destinato a una scuola come responsabile di una sezione e poi come dirigente. Per otto anni ho guidato uno dei più grandi istituti scolastici di secondo grado del paese. Con un po’ di buon senso sono riuscito a portare a buon fine l’impresa, nonostante la crisi umana della guerra e del genocidio. Una volta ho disobbedito all’autorità del mio vescovo: mi propose come cappellano militare, ho dovuto spiegare che la funzione non corrispondeva al mio temperamento. Per mia fortuna hanno nominato un altro più interessato. Purtroppo il vescovo è stato assassinato durante la guerra e il sacerdote condannato, finito il conflitto, dal Tribunale Internazionale per il Rwanda.

Cosa suggeriresti a un giovane che oggi sentisse la vocazione al sacerdozio?
«Sentire la vocazione al sacerdozio» a me non sembra una cosa semplice: c’è tutto un contesto di vita, di fede, di armonia di valori autentici. Bisogna sentire per prima la vocazione alla vita cristiana. Qualcuno direbbe: «Sentire la vocazione alla vita “tout court”». Al giovane di oggi direi: «Se ravvisi i germogli della chiamata, coltivala. È la stessa cosa che coltivare lo sguardo pieno di amore e di predilezione che Gesù ha posto sui primi chiamati, che lo hanno seguito pieni di entusiasmo». «Ti farò pescatore di uomini, e ti darò il centuplo quaggiù e la vita eterna»: la chiamata e la promessa sono grandi; sia grande anche la risposta, ci dicono tutti i predicatori.

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