Il racconto degli scatti

La vita e la sofferenza di oggi attraverso le fotografie

Nelle pagine di un giornale, che presenta la mostra che fino al 21 maggio ripercorre a Torino i settanta anni dell’agenzia fotografica Magnum, colpiscono subito l’immagine di un barcone di profughi in navigazione e poi quella di profughi distesi esausti sul ponte della nave accorsa per salvarli. Nella stessa pagina ci sono la foto di una sfilata di moda e la foto che ritrae la folla in preghiera nella veglia funebre per Giovanni Paolo II.
Immagini diverse e anche contrastanti nei media: come in questi giorni, come sempre.
Il fotografo è Paolo Pellegrin – uno dei protagonisti della rassegna torinese – ed è Domenico Quirico a intervistarlo.
“Non hai l’impressione – chiede il giornalista – che oggi sia liso l’impatto della foto sulla coscienza collettiva?”
“Siamo talmente esposti, sovraesposti alle immagini – risponde il fotoreporter – che forse una parte di impatto si è persa, questo è vero. Ma proviamo a fare l’esercizio teorico di immaginare un mondo senza immagini, che dalla Siria non esca più una foto… sarebbe ancora peggio, molto peggio”.
Certamente ci sono immagini, come quella del piccolo siriano Ailan il cui corpicino senza vita venne deposto dalle onde sulla spiaggia, che irrompono nella sfera delle emozioni e poi vanno in dissolvenza: sembrano non lasciare alcuna traccia.
Anche perché il loro susseguirsi nei media è ad altissima velocità e inevitabilmente l’una spinge l’altra fuori dalla pagina e dallo schermo.
Fuori anche dalla memoria?
Malgrado il bombardamento di immagini, risponde Pellegrin, “mi viene da pensare che una traccia la foto la lascia, come avviene anche per la parola scritta, ci sono processi più lenti non immediati: dove non c’è racconto, dove non c’è immagine, quel mondo mi fa paura”.
Parole che vengono da chi, immerso nella realtà, riesce a cogliere, con una macchina fotografica, con una penna, con un computer, la presenza o l’assenza di umanità.
Non sono gli strumenti a cogliere ma la coscienza di chi li usa mentre attraversa i più diversi e contrastanti paesaggi umani.
Le tracce di umanità si rivelano così anche in coloro che scattano le immagini della sofferenza innocente.
È il frutto di una professionalità che conosce bene le regole del mestiere ma anche si lascia sorprendere dal mistero della vita.
“Cerco – dice Paolo Pellegrin – di entrare nelle storie, di proporre più che posso l’intimità delle persone, sviluppare i rapporti”.
Così la narrazione diventa percorso educativo e anche segno di fiducia in un’opinione pubblica che sa comprendere una tragedia attraverso le foto senza che queste feriscano chi è già stato ferito dalla violenza e dall’umiliazione.