Cultura e costume

Una rivoluzione che viene da lontano

Alessandro Masi con “L’artista dell’anima. Giotto e il suo mondo” parte dagli elementi storici a cavallo tra due e trecento per aprire nuovi varchi, come quello della fascinazione francescana anche nello spirito del grande artista

La rigida divisione tra discipline ci impedisce di cogliere la ricchezza delle relazioni tra letteratura, fede, arte, musica, pensiero filosofico e perfino le scienze “esatte”. Mentre all’estero, grazie anche a personaggi di confine come Erwin Panofsky, Fritz Saxl e Aby Warburg, sono da lungo tempo operative materie universitarie che mettono in risalto i collegamenti e le interrelazioni nella cultura umana, da noi si guarda, soprattutto a livello accademico, ancora con sospetto a queste indagini. Eppure esse ci permettono di approfondire momenti privilegiati, in cui, e veniamo al nostro caso, l’arte di Cimabue e soprattutto di Giotto entra in contatto con la fede, nella figura di Francesco d’Assisi, con Dante, con il magistero di san Tommaso, l’economia e la società trecentesche e tanto altro.

Dobbiamo questo connubio fecondo ad un critico d’arte, Alessandro Masi che con il suo “L’artista dell’anima. Giotto e il suo mondo” (Neri Pozza, 186 pagine, 18 euro) parte dagli elementi storici a cavallo tra due e trecento per aprire nuovi varchi, come quello della fascinazione francescana anche nello spirito del grande artista. Giotto è catturato da quell’esperienza inaudita, inesprimibile a parole. Un uomo privilegiato decide di andarsene, lasciandosi dietro le ricchezze, le comodità, gli amori, le feste, una vita di agi. E senza senso, ormai. Il suo andarsene non è indolore, anzi. Deve affrontare la vergogna di un padre ricco che scopre di avere un figlio folle, la sua condanna in pubblico. Deve fare i conti per la prima volta nella sua comoda esistenza con quella che era la vita di fuori, di quelli che vedeva passare sotto le sue finestre chiedendo un pezzo di pane e poi andare a dormire sotto gli alberi o tra i ruderi e soffrendo freddo e caldo, sete e fame, vergogna e botte dei violenti.

Masi riprende la voce, non provata a livello documentario, di prestiti a tempo e di vera e propria usura che sarebbe stata praticata dall’antico ragazzetto di Vicchio che raffigurava le sue uniche compagnie di allora, gli animali al pascolo. Assorbe questa mancanza di basi certe all’interno dell’inventio narrativa: l’ossessione di quello che era diventato il faro della nuova pittura, quella che poneva la prospettiva come arma contro l’immobilità bizantina, è quella dell’antica “povertà”, nel senso che si doveva lavorar sodo fin da piccoli per aiutare la famiglia. La fascinazione del contrario, dunque, che si incontra con un altro percorso, quello del Dante che dal 1302 è costretto anche lui al pellegrinaggio. Anche qui il Fiorentino è romanzato, con la sua supposta appartenenza ad una confraternita sapienziale, quella del circolo stilnovistico, che avrebbe avuto contatti con Templari. Tutti argomenti trattati in abbondanza da alcuni scrittori e che però non sono sostenuti, anche qui, da prove storiche.

Se la narrazione talvolta porta un po’ troppo in là rispetto alle fonti, essa in compenso conserva pagine in cui il fantasma di Francesco getta un ponte sulle diversità, talvolta radicali, tra il santo e il pittore, e spiega l’altrimenti inspiegabile. È l’arte che getta quel ponte: “la lingua semplice e povera di Francesco sarebbe stata alla base della sua rivoluzione artistica, perché incarnava il verbo dell’uomo nuovo, quello che lui stesso vedeva nelle strade avvolto nei cenci dei miserabili”.

Il Trecento, ci dice questo libro, non è stato solo il secolo dei tre grandi, Dante, Petrarca, Boccaccio, ma anche il punto di incontro trasversale tra la sequela radicale del Vangelo, la resurrezione interiore dopo il viaggio negli inferi e la nuova arte capace di dire l’uomo con un umano incontrato dal divino. Grazie anche a Francesco.

dal Sir