Tra la terra e il cielo

Così Francesco Brancato e Ludovico Galleni indagano sulla trascendenza

“Nell’animazione vi è un intervento diretto di Dio creatore nel momento in cui si realizza l’organizzazione di una forma vivente tale da comportare i caratteri di vita umana”.

Non c’è un momento magico in cui l’uomo si separa dagli animali e acquista un’anima, ma vi è un movimento totale nell’esistenza dell’uomo che apparentemente è guidato da un inizio e che in realtà è attirato dal suo compimento. In questo lavoro “L’atomo sperduto” scritto a quattro mani da Francesco Brancato, teologo, e Ludovico Galleni, docente di Zoologia, (San Paolo, 199 pagine) si racchiude il difficile, se non impossibile – per la intrinseca limitatezza del punto di vista umano – compito di spiegare la trascendenza del nostro percorso sulla terra.

Quella citazione inziale, tolta da un libro dell’antropologo Fiorenzo Facchini, certo non spiana la vita alla comprensione radicale del progetto divino, però aiuta a capirne il motivo fondamentale. Per comprendere meglio, ancora una volta si deve ricorrere a Teilhard de Chardin. Anche perché questo libro opera una non frequente, in ambito cristiano, manovra di distacco dal creazionismo e di avvicinamento all’evoluzionismo, manovra che non può non tener conto dell’apporto del gesuita francese.

Ma perché Galleni prende le distanze da un certo creazionismo? Perché a suo avviso, se si offre una sponda ad esso, “non abbiamo a che fare con il Dio della rivelazione biblica, ma con il demiurgo platonico”, e soprattutto perché, seguendo J. H. Newman, “tale approccio è ancora un approccio pagano che nulla ci dice del Dio della fede cristiana”. Vero. Ma è altrettanto vero che muovendo da una concezione in cui si accetti una possibilità di intervento Altro nella storia dell’universo, ci si può distaccare da un materialismo senza speranza, in cui tutto è segnato o dal caos o da leggi unicamente immanenti.

Platone era pagano, certo, ma ha permesso il transito dal politeismo al cristianesimo attraverso il riconoscimento di una realtà altra rispetto alla materia, mentre il materialismo post-darwiniano non ha fatto altro che attaccare qualsiasi possibilità di discorso teologico, affondando le coscienze più sensibili in una disperata e disperante materialità.

Galleni non attacca lancia in resta l’evoluzionismo, rivendicando nello stesso tempo la completa alterità della visione cristiana della creazione, ma auspica invece “un ritorno ad una corretta filosofia della natura”. Lo studioso accetta i presupposti darwiniani, anzi, giustamente, mette in luce, citazioni alla mano, le perplessità di Darwin stesso su alcuni possibili esiti speculativi della propria ricerca. Appaiono qui tutta la serietà e la preoccupazione dello scienziato, che opera assai diversamente da tanti divulgatori a noi contemporanei pieni di certezze e soprattutto sempre pronti a sparare su ogni spiritualismo: Darwin in realtà non assolutizza le sue ricerche, ma anzi, tenta di capire se vi siano errori o altre possibilità di interpretazione. Perché, scrive Galleni, pur accettando l’evoluzionismo, si può credere che il Creatore abbia immesso il soffio vitale in questo continuo “tendere a”, che non è una fine, ma un fine, una potenzialità che si avvia verso qualcosa.

Il discorso di Brancato non è dissimile, pur partendo dal versante teologico. E pone il problema di cui parlavamo in apertura: si può dire quando e dove sia entrato il divino nella storia umana? La strada è davvero tortuosa, e probabilmente mancano le parole adatte, ma una indicazione di metodo c’è: ad esempio nel simbolismo intrinseco all’uomo, che gli offre “capacità di guadagnare spazi di intenzionalità e di libertà inediti e originali”. La capacità di riflessione lo mette in grado di prendere le distanze da sé e pensare se stesso. Ma non è solo questo. Anche qui la parola nasce da e, per ora, torna a Teilhard, quando egli vede traccia dello spirito nella disponibilità verso l’altro, nel sacrificio, nella tensione verso il sofferente, insite nella natura umana. Darwin vedeva, e ne era spiacevolmente sorpreso, aggressività e sopraffazione nella natura. Il gesuita francese seppe cogliere invece un’immagine del divino nella capacità di tornare all’essere, pur rimanendo divisi, attuando, a volte inconsapevolmente, un piano di armoniosa ricomposizione nel – e verso – il tutto originario. L’amore, aveva ragione Dante, è la traccia visibile di questo divino “tendere verso” l’altro, oltre il soddisfacimento egoistico degli appetiti primordiali.