Rieti e gli intellettuali: per legittima difesa

Quale è lo stato di salute della cultura locale? Vanno bene i saggi eruditi e le apprezzabili ricerche. Ma qual è il ruolo dell’intellettualità? Traccia nuove le vie, gli orizzonti di una rinnovata identità? La profonda crisi della nostra città non troverà una soluzione nel solo cambiamento amministrativo. Ci vorrebbe innanzitutto una cambiamento culturale.

Rieti e gli intellettuali. È un tema difficile, ci avvertono gli amici. Hanno ragione: il campo della ricerca è fin troppo vasto. È esagerato per quantità e varietà. Ovviamente non ci proponiamo di esaurirlo con le nostre poche forze, né di contenerlo tutto sulle nostre pagine. Ma l’argomento è da affrontare, almeno all’ingrosso e, se non altro, per legittima difesa.

I poveri cittadini ne hanno dovute sopportare tante. Quanta pazienza c’è voluta e ce ne vorrà in futuro. Intanto dalle scarpe volano giustamente i sassolini. In tanti si sono accorti che la città somiglia all’opera «sgangherata e approssimativa di certi quotati maestri». Ai più accorti non sarà sfuggito come le penne organiche ai Palazzi abbiano adulato, confortato, giustificato chi ha tenuto a lungo le redini del gioco. Ci sono voluti anni di gratificato lavorìo. Non faremo i nomi, non è necessario. Parlano le opere. Certa editoria locale, ad esempio, è parsa quasi irrefrenabile. Un fiume di carta e inchiostro, di spigolature e poesiole, di «memorie sabaude» e romanzi cui non sarebbe difficile rinunciare.

Libri, e soprattutto “Quaderni”, che ci hanno deliziato con lo stesso gusto delle piazze in travertino, delle centralissime caciotte e degli inutili gnomoni! Tutti figli di un pensiero straccione, di una grandezza tanto sbandierata quanto inconsistente, di una politica simulata, impreparata, improvvisata.

Viene da chiedersi se la città meritasse fino in fondo la classe dirigente che ha avuto. Personaggi in cerca d’autore hanno cercato una parvenza di continuità nell’ostinato recupero di marginali memorie repubblichine. Esercizi solitamente arbitrari, spesso pagati dalle casse comunali, con la scusa di una qualche ricognizione storico-culturale e l’alta pretesa di farne «la stella polare per le nuove generazioni». I risultati francamente appaiono più modesti.

E tra una pubblicazione e l’altra, si è tentato più volte il colpo grosso, la conquista di un qualche prestigio «extra-nazionale». Così, negli ultimi vent’anni, si sono celebrati Re zoppi e frutti piccanti. Oppure si sono allestiti carrozzoni costosi e discutibili.

Una serie di inutilità fra le quali si sono ben mossi alcuni intellettuali assai furbi. Sono quelli che hanno provveduto a legittimarsi in proprio, a darsi un tono. Come laboriose formiche hanno provato a sollevare ben più del loro piccolo peso, poggiando la penna su qualche grande tema. Alla scienza hanno contribuito ben poco, ovviamente. Ma quanta vanità hanno soddisfatto. Le loro “non sempre dimostrate” competenze sono diventate luogo comune. Su di esse hanno fondato e rifondato comodi rifugi per affrontare il vento che cambia.

Del resto, la principale mira degli intellettuali reatini pare essere quella di finire al sicuro in qualche ente, archivio, ufficio. Aspirazione legittima, intendiamoci. Ma da qui ad una vera funzione di guida ce ne corre. E la città ne soffre. I soliti amici ci fanno notare che «a Rieti mancano una borghesia dell’impresa e una intellettualità dignitosa per uscire dal feudalesimo».

Oggi stiamo vivendo una profonda crisi: siamo in bilico fra cambiamento e disillusione. Senza un esercizio critico, uno sforzo interpretativo, c’è il rischio che la somma dei due risulti essere il solito zero.

Più che di rispettati eruditi, avremmo bisogno di uomini dotati del fiuto per le cose che contano, dell’intuito per quel che non va o potrebbe andare meglio, del coraggio necessario al pamphlet di denuncia. Magari di giornalisti che sappiano fare inchieste. Per un vero cambiamento non basta certo un’elezione. Ci vogliono menti preparate, creative, capaci di progettare alternative. Ci vogliono voci che mettono in discussione il modo in cui vogliamo vivere. Insomma, ci vorrebbero gli intellettuali, una rete, un cervello collettivo, una nuova identità cittadina.

La destra ha dato quel che ha potuto, e i risultati li conosciamo. E la sinistra? Per il momento la si vede solo ballare attorno al cadavere del proprio avversario. Ma, piuttosto che fare gli avvoltoi, sarebbe urgente un’autopsia. Sbaglierebbe ad attendere la decomposizione della destra. Il danno sarebbe tutto per la città. Sarebbe invece necessario tentare, almeno post-mortem, l’analisi delle sue sub-culture sociali e politiche, per salvare quel che è necessario conservare e distinguere le competenze dagli abusi, i veri bisogni sociali dalle risposte errate date in passato.

Un lavoro da intellettuali, per l’appunto, da affiancare alla buona politica. Potrà anche essere un “lavoro sporco”, talvolta. E può capitare di dover mettere in discussione se stessi. Ma qualcuno dovrà pur farlo. Altrimenti finirà come al solito: liberi pensatori, clientele ed opinioni si unificheranno sulla base dei flussi monetari e istituzionali per celebrare poco più di niente. Come le secolari feste svanite nel nulla.