Il silenzio della trincea

Ermanno Olmi lo ripropone nel suo film meditativo: “Torneranno i prati”

Spesso il cinema sa parlare anche senza utilizzare parole. Solo il grande cinema, bisogna aggiungere, lo sa fare. Lo sapevano bene i registi al tempo dell’epoca del muto quando, per la prima volta, si affacciò l’invenzione del sonoro: grandi autori come Charlie Chaplin o Eric Von Stroehim erano totalmente contrari alla nuova tecnologia, affermando che il cinema sapeva già “parlare” attraverso le immagini e che l’uso delle parole ne avrebbe depotenziato la forza evocativa. In parte avevano ragione. Con la nascita del sonoro il cinema perse un po’ della sua attenzione nei confronti dell’uso di un’immagine evocativa in grado di comunicare già tutto, con grande potenza, allo spettatore. Naturalmente ci sono sempre state le eccezioni e cioè questi registi che, pur nel delirio del sonoro, hanno sempre privilegiato il lavoro sull’immagine: da Tarkovskij a Kubrick, da Antonioni a Lynch, fino al nostro Ermanno Olmi.

L’ottantenne regista lombardo, infatti, ha sempre perseguito la via di un cinema ostinatamente “silenzioso” (perché di poche parole), ma altamente evocativo a livello di immagini. Oggi utilizza questo suo stile per portarci dentro il fango, il freddo, la desolazione delle trincee della Prima Guerra mondiale. In un avamposto d’alta quota, verso la fine della prima guerra mondiale, un gruppo di militari combatte a pochi metri di distanza dalla trincea austriaca, “così vicina che pare di udire il loro respiro”. Intorno, solo neve e silenzio. Dentro, il freddo, la paura, la stanchezza, la rassegnazione. E gli ordini insensati che arrivano da qualche scrivania lontana, al caldo. Ordini impartiti per telefono che mandano i soldati a farsi impallinare.

“Torneranno i prati”, non è un film d’azione, non è una sorta di “Soldato Ryan” della prima guerra mondiale, è un’opera meditativa che attraverso i dettagli di immagini evocative ci trasporta, al lume della cera di una candela, dentro una quotidianità sporca e scoraggiata. La pellicola inizia senza parola alcuna, ma con il montaggio lento e profondo, di sequenza che ci mostra l’esterno della trincea seppellita dalla neve, in chissà quale montagna; gli oggetti della vita quotidiana dei soldati (tutti per lo più giovani) come le forchette o i bicchieri, i mantelli e gli elmetti; e poi l’interno di quell’avamposto che sembra dimenticato da tutti, con i letti a castello affastellati l’uno sull’altro e i giovani soldati stesi nei loro letti, chi a dormire, chi a giocare con un topolino, chi a guardare la foto della famiglia lasciata a casa. E poi c’è la sentinella di guardia che osserva la natura, bellissima, che li circonda, il tenente che scrive una lettera all’amata mamma.

Olmi ci fa sentire il ruggito dei mortai in lontananza, il rosicchiare del trapano che scava una galleria nemica sotto la trincea, il gelo e la monotonia delle giornate segnate dal rancio e dalla consegna della posta. Sembra di sentir riecheggiare la famosa poesia di Ungaretti scritta nel 1918: “Soldati. Si sta come d’autunno sugli alberi e foglie”. C’è la stessa drammaticità, essenzialità, pietà, forza e disperazione insieme. L’orrore di fronte alla insensatezza della guerra, la precarietà di una generazione di giovani che è stata falcidiata da essa. Dedicato al padre e ai suoi ricordi, il film di Olmi è uno di quei capolavori che ci parlano anche senza usare tante parole, che ci colpiscono nel profondo e ci invitano a ricordare coloro che, pur se sconosciuti e anonimi, hanno pagato a caro prezzo la difesa della nostra patria.