Dichiarazione di Roma: “compromesso alto”. Ora si passi dalle parole ai fatti

In Campidoglio i capi di Stato e di governo Ue, convenuti per i 60 anni dalla nascita della Comunità, hanno sottoscritto un’importante “Dichiarazione” che potrebbe costituire una buona base per rimettere in moto il processo di integrazione. Quattri i capitoli del documento, dedicati a un’Europa sicura, prospera e sostenibile, “sociale” e più forte sulla scena mondiale. Il sostegno ricevuto da Papa Francesco. Ora “non restano alibi, né per chi ricopre responsabilità nelle istituzioni europee, né per i governi e i parlamenti nazionali, né per le tante e vitali forze della società civile” del continente

Da 6 a 27 in 60 anni. Con qualche acciacco, un divorzio doloroso in corso e una vera fatica a convergere convintamente nella operosa messa in opera di quanto sarebbe necessario. Ma tutt’ora uniti, con i risultati del più avanzato progetto di pace e progresso della storia dell’ultimo secolo.
E dopo tanti “gufi”, eccoci tutti insieme, un poco più stretti, nella stessa sala dove 60 anni fa furono firmati i Trattati istitutivi della Comunità europea. Dopo mesi di divisioni, un fervore e una intesa comune che da tempo non si vedeva. Qualcuno ha scritto che i leader sono stati stregati da Roma, dov’erano convenuti il 25 marzo per celebrare i sei decenni di integrazione comunitaria: si avvertiva la coscienza che si dovesse uscire, infine, dall’immobilismo, che occorresse cambiare pagina, andando avanti insieme nel processo di integrazione, con il rafforzamento coerente di tutto ciò che oggi urge, agendo congiuntamente, a ritmi e con intensità diversi se necessario, ma sempre procedendo nella stessa direzione.
Qualcuno ha parlato di compromesso al ribasso, altri sono delusi per la mancanza di scelte più coraggiose, qualcuno pensa che si sia fatto il solito show delle buone intenzioni, che si frantumerà al primo scoglio.
Eppure io credo che la

Dichiarazione di Roma, sottoscritta appunto il 25 marzo, sia un testo che resterà, un compromesso alto, un rilancio vero.

Tutti hanno dovuto rinunziare a qualcosa per far prevalere l’interesse comune e un’agenda di impegni possibili.
Questo è il clima che si è respirato in Campidoglio. In quella Dichiarazione non vi è solo l’orgoglio di quanto l’Ue ha fatto per i suoi popoli nel corso degli ultimi 60 anni, in termini di pace, progresso e coesione, ricordando per esempio, come ha fatto il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, che dal 1960 ad oggi il Pil pro capite degli europei è cresciuto del 33% in più di quello degli Usa!
Se si leggono gli impegni che sono stati sottoscritti, ecco il “programma di Roma”, diviso in 4 capitoli: un’Europa sicura, un’Europa prospera e sostenibile, un’Europa sociale, un’Europa più forte sulla scena mondiale. Scorrendo la lista delle azioni evocate, vi si trova un piano equilibrato e di grande portata. Nessuna retorica, ma il sobrio realismo delle molte cose oggi possibili, i molti cantieri avviati, ma che devono essere accelerati e resi più cogenti, operativi, efficaci, vicini ai cittadini.
Un’agenda per l’Europa che raccoglie la sfida posta dalle opinioni pubbliche: proteggere e garantire che vi siano nuove opportunità per tutti, nel quadro di società che restino aperte, fondate su valori e su regole comuni, sul rafforzamento democratico.

Ora bisogna passare alla speditezza dell’azione, usando tutti gli strumenti dei Trattati, senza escludere nessuno, ma evitando ancora una volta la trappola delle promesse mancate.

Questo è infatti il punto vero di reazione alla crescita dei populismi che vogliono dividere, facendoci ritornare alle più controverse pagine dei nazionalismi del XX secolo. Le conflittualità divisive della scena internazionale, che vedono il ritorno di forme di sovranismo imperiale che pensavamo archiviate, si combattono oggi col rafforzamento del “regionalismo politico”, di cui l’Ue è l’espressione più complessa. Un movimento che negli ultimi 20 anni ha aumentato di 10 volte il numero di organizzazioni e accordi “regionali” nel mondo intero, che garantiscono stabilità, opportunità di progresso e di regolazione negoziata.
A Roma si è avuta la chiara percezione che nessuno è stanco della nostra Ue, ma che tutti i leader europei vogliono che essa funzioni meglio. Come ha detto il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, ci sono firme che durano e che pesano. Ecco, vedere i leader europei alternarsi per firmare la Dichiarazione di Roma, sopra una teca che conteneva i Trattati di Roma con le firme originali del 1957, ha di per sé una potenza di simbolo che può diventare vincolo.
Uno dei discorsi più evocativi è stato quello del presidente del Consiglio europeo Donald Tusk – nato a Gdansk 60 anni fa e vissuto per metà della sua vita oltrecortina – il quale ha fatto capire che per oltre 100 milioni di europei la doppia velocità è stata per una vita l’impossibilità stessa di poter persino pensare parole come libertà, progresso, democrazia, ruolo della legge.

Per questo la parola solidarietà che unisce rispettando le nostre diversità non è retorica, ma tratto identitario indivisibile.

La Dichiarazione di Roma corrisponde a quel chiaro invito che Papa Francesco ha consegnato ai leader alla vigilia, con l’udienza del 24 marzo, quando ha chiesto di discernere le vie di speranza, identificando i percorsi concreti, per alimentare ancora un lungo e fruttuoso cammino.
Ora non bisognerà perdere tempo nello scorcio di questi ultimi due anni di legislatura del Parlamento europeo. Solo così facendo si lasceranno le porte aperte anche a nuove e ulteriori evoluzioni, forse persino arrivando a dare forma a quell’ipotesi di nuova Costituente evocata al Quirinale in chiusura di giornata.
Non restano alibi, né per chi ricopre responsabilità nelle istituzioni europee, né per i governi e i parlamenti nazionali, né per le tante e vitali forze della società civile europea, che nella diversità delle loro sensibilità hanno colorato e riempito le piazze di Roma e di tutta Europa. Facendoci capire che l’Europa continua a farsi, ma anche il popolo europeo si vede sempre di più.
Lunga vita all’Unione europea.

Luca Jahier