Per la prima volta dal 1979, quando l’Europarlamento fu votato direttamente dai cittadini, l’astensione non cresce: il numero dei votanti è sicuramente modesto (43%), ma in linea con quello del 2009. All’Eurocamera irrompe la politica vera e propria, fatta di consensi elettorali, partiti, programmi, leader, strategie e alleanze. Il nome del prossimo presidente della Commissione ne sarà una riprova
Il primo dato, incontrovertibile trattandosi dell’elezione del nuovo Europarlamento, è che nell’emiciclo di Strasburgo restano prevalenti le forze pro-Europa. Nell’affannosa ricerca di chiavi di lettura per i risultati del voto del 22-25 maggio, si sta trascurando che, presi nel loro insieme, Popolari, Socialisti e democratici, Liberaldemocratici e Verdi dovrebbero contare nella legislatura 2009-2014 su circa 520 eurodeputati rispetto ai 751 dell’Assemblea comunitaria. Ovvero, le forze che in questi anni hanno formato una maggioranza trasversale (talvolta male assortita) nell’emiciclo, e alle quali si deve il sostegno alla Commissione e ai suoi tentativi di rispondere alla crisi economica, ottengono circa il 70% dei suffragi popolari. Sia i Popolari che, in misura minore, i Socialdemocratici appaiono in calo, ma restano pur sempre l’asse portante del Parlamento Ue.
Un secondo elemento, altrettanto evidente, è l’avanzata di forze a vario titolo definite eurocritiche, che comprendono un ventaglio di partiti con venature nazionaliste, antieuropee, populiste. A Strasburgo potranno contare su una pattuglia di almeno 150 rappresentanti, benché fra loro divisi sul modello di Europa – o di non Europa – da perseguire nei prossimi anni. Non sarà facile, infatti, far convergere in una medesima strategia i deputati del Fronte nazionale francese, gli indipendentisti britannici dell’Ukip, gli esponenti italiani del Movimento 5 Stelle e quelli della Lega nord, i greci di Tsipras (sinistra) e di Alba Dorata (destra), i neofascisti ungheresi di Jobbik, gli “indignados” spagnoli, i nazionalisti di varie sigle eletti in Austria, Finlandia, Svezia, Polonia, Bulgaria…
Sostanzialmente il Parlamento europeo risulterà più frastagliato (l’iscrizione dei singoli deputati ai gruppi politici e l’eventuale costituzione di nuovi gruppi avverrà solo nelle prossime settimane e dunque occorre attendere la reale composizione dell’emiciclo); forse anche per tale ragione non sarà semplice portare a termine una delle nuove competenze che spettano all’Assemblea, ossia l’elezione del futuro presidente della Commissione. Stando ai risultati, il candidato del Partito popolare – prima forza a Strasburgo -, Jean-Claude Juncker, parte avvantaggiato per la successione di José Manuel Barroso; ma non esiste alcun automatismo per questa nomina. Il Consiglio dei capi di Stato e di governo si ritroverà domani a Bruxelles per una prima analisi delle elezioni; quindi con il summit di fine giugno avanzerà ufficialmente un nome per la guida della Commissione, il quale dovrà ottenere la maggioranza dei voti degli europarlamenti: a questo livello potrebbero però crearsi alleanze oggi difficilmente prevedibili. In definitiva nella sede dell’Eurocamera irrompe la politica vera e propria, fatta di consensi elettorali, di partiti, di programmi, di leader, di strategie, di alleanze. Il nome del prossimo presidente della Commissione ne sarà una riprova.
Oltre a queste “evidenze” consegnateci dalle urne, rimangono sul tavolo una molteplicità di elementi che meriteranno ulteriori e più approfondite riflessioni nei prossimi giorni. Ad esempio per la prima volta dal 1979, quando l’Europarlamento fu votato direttamente dai cittadini, l’astensione non cresce: il numero dei votanti è sicuramente modesto (43%), ma in linea con quello di cinque anni fa. Una parte di questo dato si può imputare alle stesse forze eurocritiche che, forse loro malgrado, hanno risvegliato sui due fronti, pro e contro l’Ue, la voglia di votare.
È altrettanto vero che nelle elezioni europee si mischiano e si confondono ingredienti nazionali e comunitari. Per cui gli stessi risultati delle votazioni andrebbero interpretati con estrema prudenza, tentando di capire quale sia il mix di motivi che hanno spinto ogni singolo elettore a votare o meno e, nel primo caso, quali ragioni “locali” e quali “europee” abbiano indirizzato l’espressione del voto. Anche perché questa volta le consuete categorie interpretative non bastano più: il corpo elettorale non può essere semplicisticamente diviso in destra e sinistra, in pro o conto l’integrazione europea, schierato per le forze al governo del proprio Paese oppure con le opposizioni nazionali. Il cittadino – disilluso dalla crisi economica e sociale, spiazzato dalla complessità della politica, terrorizzato dalla globalizzazione che avanza, pressato dai martellamenti massmediali – cerca nuove forme di rappresentanza. A Parigi sono sconfitti i Socialisti del presidente Hollande, a Londra perdono i Conservatori del premier Cameron; a Berlino reggono i partiti della coalizione che sorregge Angela Merkel, in Italia vince il partito del presidente del Consiglio in carica; in Spagna arretrano sia i popolari governativi sia l’opposizione socialista; i risultati sono ancora meno chiari rispetto alle analisi consolidate in Polonia, Portogallo, Irlanda, Romania, Lituania, Grecia o Repubblica ceca…
La sicura eredità che ci consegna l’elezione 2014 è semmai la conferma che la politica – tanto europea quanto nazionale – è sempre più distante dai cittadini, dal popolo sovrano. Complessivamente ciò significa che la democrazia in Europa segna una fase di preoccupante stanchezza, alla quale si potrà rispondere solo con una accresciuta autorevolezza e credibilità della politica stessa e con una ritrovata volontà di partecipazione da parte dei cittadini. Una “nuova politica”, dunque, come attività regolativa e propulsiva, al servizio dei popoli europei. Scorciatoie non esistono, non si può che ripartire da qui.