In questa stagione di transizioni, raffreddori ed elezioni, vorremmo umilmente suggerire ai nostri lettori di stare attenti al… vento che tira. Temiamo di dover assistere (da spettatori) ad una strage di illusioni. Forse ci toccherà assistere (da infermieri) qualche amico ferito da inattese delusioni.
Sarà bene, comunque, tenersi alla larga dai facili slogan, dai modi di dire che imperversano nella comunicazione pubblica. Diffidiamo, ad esempio, di chi “va” in pubblicità, anziché mandarla in onda, torturare le nostre orecchie e convincerci così di qualcosa che a lui conviene.
Diffidiamo di chi promette trasparenza senza far, di mestiere, il vetraio.
Diffidiamo della serietà, concretezza, impegno e passione dei candidati: ve li immaginate clowneschi, astratti, disattenti e svogliati? Diffidiamo della virtù, quando ci sorride ammiccante dai cartelloni formato gigante.
Particolare diffidenza meritano, poi, le nostrane schiere di intellettuali – affabulatori – imbonitori.
Ci si abitua ad ogni rumore di fondo, si sa, ed ormai sopportiamo stoicamente la loro creatività a buon mercato. Non credano, però, che non sappiamo, non ricordiamo, non distinguiamo.
Li vediamo, eccome: prendono continuamente la parola, incapaci di tacere, o di parlare senza curiosi artifici, solenni retoriche ed inutili mistificazioni. A loro, solo a loro, spetta l’amministrazione dei modi di dire. Normalmente schivi, solinghi, ossuti, i nostri maestri del pensiero volano alto, non scendono a patti con la realtà. Come d’incanto, però, te li ritrovi puntuali ad ogni celebrazione, inaugurazione, dibattito radio-televisivo, trionfo da osteria. Invadenti, eppure inafferrabili. Criticarli è impresa ardua, quasi impossibile. Per “fortuna” di tanto in tanto sono costretti a lasciare tracce scritte. E allora ne leggiamo delle belle, sganasciandoci dalle risate, ancorché amare. Non ci credete? Scripta manent, abbiamo le prove. Vorreste qualche esempio? Ma troppo vasta sarebbe la documentazione! Forse dovremo affidarla a generosi archivi elettronici.
Accontentatevi, per ora, di pochi passi tratti da pubblicazioni finanziate col denaro comunale: «prigionia socialambientale in una libertà esistenzialmente falsolibera»; «Alè. Un irenismo della solitudine»; «una indefinita ybris galleggiante sulla ondosità dell’anima collettiva»; «dalla apolitudine del tempo che disperde alla insiemitudine del ricordo che invece riunifica»; «quell’innato, istintivo ed ancestrale spirito ludrico che galleggiava nell’inconscio individuale dei reatini già sabini»; «un altrove ma non qui e diverso dal dove di qui».
Capito, pezzo di zucconi che non siete altro?