Utero in affitto: non sarà reato, ma…

Fa discutere il caso della coppia di italiani che hanno ottenuto un figlio a Kiev attraverso una “maternità surrogata”. Non si tratta di mettere in discussione o sottovalutare l’apporto affettivo di una coppia rispetto ai figli diversamente concepiti, ma di riportare il tutto in un contesto biologico da cui non si può prescindere.

L’utero in affitto non è reato. Almeno, questa è l’interpretazione giurisprudenziale del Tribunale di Milano che, a differenza di casi analoghi decisi in tutt’altro verso in altre città, ha assolto una coppia milanese che aveva fatto nascere un bambino in Ucraina. Nelle motivazioni si legge: “Nel caso in esame l’atto di nascita è stato formato nel rispetto della legge del luogo ove il bambino è nato, all’esito di una procreazione medicalmente assistita conforme alla lex loci”. Quindi, con buona pace della legge 40 vigente nel nostro Paese, la gravidanza simulata, con tanto di finto “pancione” a beneficio di amici e parenti, viene derubricata a reato minore: non più alterazione dello stato civile, ma soltanto false dichiarazioni ai funzionari dell’ambasciata, fattispecie perseguibile solo con querela dal ministero degli Esteri.

La vicenda nasce dal contratto sottoscritto nel 2009 dai coniugi A. C. e S. B. presso la clinica Biotexcom di Kiev. Nell’impossibilità di avere un figlio, la coppia ha stipulato un contratto di “maternità surrogata con ovodonazione”. Quindi, per 30mila euro di spesa, il seme dell’uomo è stato impiantato su una ragazza “volontaria, maggiorenne, con piena capacità giuridica”. Nel 2010 il bimbo nasce in una clinica di Kiev e i neogenitori acquisiti hanno falsamente attribuito il parto alla moglie dichiarando che era stato del tutto naturale e casualmente avvenuto nel corso di un viaggio turistico. I funzionari d’ambasciata però si sono insospettiti e hanno inviato la segnalazione dell’anomalia alla procura di Milano che, nel giro di pochi mesi, fa scattare le indagini e rinvia a processo la coppia con l’accusa di “alterazione di stato di un atto di nascita”.

Il capo di imputazione è molto grave: si rischiano dai 5 ai 15 anni di reclusione e la perdita dell’affidamento del bambino. La Quinta sezione penale del Tribunale è stata però di altro avviso e, rigettando le richieste della Procura, ha assolto marito e moglie. L’utero in affitto non è reato. Almeno, questa è l’interpretazione giurisprudenziale del Tribunale di Milano che, a differenza di casi analoghi decisi in tutt’altro verso in altre città, ha assolto una coppia milanese che aveva fatto nascere un bambino in Ucraina. Cuius regio, eius religio: la giurisprudenza in merito si muove a macchia di leopardo generando confusione e mirando all’ennesimo intervento di legislazione emotiva. In un caso analogo, pochi mesi fa, il Tribunale di Brescia aveva deciso per la sanzione più severa, mentre, nel giugno 2013, una coppia di genitori triestini tornati in Italia dall’Ucraina con 2 gemelli hanno beneficiato dell’assoluzione.

La vicenda ripropone in tutta la sua drammatica attualità quel presunto “diritto a un figlio” che, a fronte di un adeguato corrispettivo, non si ferma troppo a sottilizzare su chi è la madre di chi, tanto poi le cose sul versante legale si possono sempre sistemare. Come se fosse pacifico che “regolarizzare” la situazione sul piano formale, giuridico, anagrafico risolvesse anche tutti i problemi sul piano umano. Sono molteplici i diritti, autentici, che vengono abbattuti nel dare il via libera al mercato dell’utero in affitto. Anzitutto lo sfruttamento della povertà di donne che accettano di vendere la propria capacità riproduttiva per portare in grembo un figlio per conto terzi, spesso anche per coppie dello stesso sesso.

L’idea di un’intera generazione di giovani donne, perlopiù in Paesi in via di sviluppo, che vengono ridotte al livello d’incubatrici senzienti è qualcosa che si credeva di ritrovare solo nelle distopie letterarie di romanzieri che non pensavano di prefigurare il futuro. E che dire dei bambini nati da questa molteplicità di figure genitoriali? Qui non si tratta di un’adozione, in cui i rapporti sono chiari e definiti fin dall’inizio, ma dello scardinamento consapevole dei parametri basilari della generazione, rinviando a tempo indeterminato le problematiche relazionali che prima o dopo emergeranno. Attenzione, non si tratta di mettere in discussione o sottovalutare l’apporto affettivo di una coppia rispetto ai figli diversamente concepiti, ma di riportare il tutto in un contesto biologico da cui non si può prescindere. E così, mentre non si rinuncia a ricordare da più pagine esempi di mamme illustri in età avanzata, ci si scorda di sottolineare che dopo una certa età la natura consente solo di essere portatrici sane di ovuli altrui. Venduti, non donati.