Z.A. è nato in Siria nel 1986. È il più vecchio di sei fratelli. Nonostante le difficoltà di essere studente in Siria, è riuscito a frequentare due anni la facoltà di medicina e si è laureato in farmacia.
Non aveva ancora finito gli studi e già lavorava in un ospedale a Damasco.
«Ho sempre lavorato in ospedale. Studiavo durante il giorno e lavoravo la notte: prima come tecnico di radiologia e, più tardi, nella farmacia ospedaliera. Eravamo in una zona pericolosa e abbiamo ricevuto molti feriti. So quasi tutto quello che c’è da sapere sui soccorsi».
I piani di vita e l’apparente futuro promettente di Z.A, sono stati poi gettati al vento con lo scoppio del conflitto siriano nel 2011 che lo ha costretto a lasciare tutto alle spalle, senza nessuna possibilità di scelta. Anche se le ragioni sono ovvie, non era la paura e il pericolo che gli fece abbandonare Siria.
«La situazione è diventata sempre più pericolosa, l’ospedale e i lavoratori erano costantemente sotto attacco. Non era il pericolo che mi ha dissuaso a rimanere, naturalmente c’è la paura, ma anche alla paura siamo abituati».
In realtà, Z.A. è fuggito per non uccidere. In Siria il servizio militare è obbligatorio per tutti gli uomini ma, durante l’università Z.A. è riuscito a sottrarsi al reclutamento. Con la fine dell’università, è stato subito chiamato e non ha avuto altra scelta che entrare nell’esercito o unirsi ai ribelli.
«Non è che io non ho un’opinione, un mio pensiero: naturalmente, mi interessa il destino del mio Paese, tuttavia, non sono favorevole ne al governo attuale ne ai ribelli: entrambi hanno fatto grossi errori. Quando sono stato chiamato alle armi, non ho visto un’altra soluzione che fuggire: non voglio uccidere nessuno».
La velocità della fuga non ha lasciato molto spazio per piani o addii. Fuggire è stata la parola d’ordine. Con se ha portato solo l’essenziale: passaporto, documenti d’identità, diploma di laurea e soldi per pagare il viaggio.
E partito dalla Siria, ha attraversato il Libano, l’Egitto (Cairo) e la Libia. A Tripoli, la capitale, ha lavorato come farmacista, ma è stato costretto a lasciare la città a causa della crescente ondata di violenza generata da conflitti armati. Arrivato a Lampedusa (Italia) è rimasto qui un paio di giorni fino a quando la polizia ha preso le sue impronte digitali per la procedura di identificazione.
«Mi hanno detto che potevo andare in qualsiasi luogo che volevo. E, cosi, io e alcuni amici abbiamo preso il treno per Milano e siamo andati in Germania, dove ho fatto la richiesta di asilo politico»
Tuttavia, le cose non vanno come si aspettava. Secondo la Convenzione di Dublino, la quale prevede che si dovrebbe chiedere asilo nel primo Paese in cui sono state raccolte le impronte digitali – la Germania ha negato la sua richiesta e lo ha rimandato in Italia.
«Sono stato in Germania sette mesi fino a quando la polizia è arrivata nella mia casa per comunicarmi che dovevo tornare in Italia. Ho rifiutato. Ho assunto un avvocato che ha detto che mi avrebbe aiutato, ma sono finito in carcere. Ho sopportato un mese la detenzione fino a quando ho accettato di tornare in Italia».
Quando Z.A. è arrivato a Roma, è stato accolto in un campo profughi: «Ero in un campo di prima accoglienza a Roma, dove le condizioni erano pessime: la colazione era servita alle 7, non potevamo preparare i nostri pasti e mangiavamo tutti giorni lo stesso pasto. Dopo tredici giorni, un uomo mi ha informato che sarei stato trasferito in un progetto SPRAR a Rieti. Quando sono arrivato ho sentito che, finalmente, tutto andava bene: avevo una casa e poteva cucinare il cibo secondo le mie abitudini».
Per sette mesi accolto nel progetto gestito dalla Caritas Diocesana di Rieti, Z.A. ha cercato di organizzare la sua vita e ricominciare da capo.
«Ho frequentato un corso di lingua italiana, un corso di formazione al lavoro e uno stage formativo come pizzaiolo».
Anche se l’ambiente era ottimo, ha avuto occasione di conoscere nuove persone ed ha fatto nuove amicizie soprattutto con il titolare della pizzeria, il lavoro in se non era molto di suo gradimento perché sperava di poter continuare il lavoro che svolgeva in Ospedale nel suo Paese.
«Tuttavia qui non ho altra scelta. Una delle cose che mi manca di più della Siria – al di la della famiglia, naturalmente – è la possibilità che avevo di scegliere….il lavoro, la casa ecc.… Qui non posso».
Nel novembre del 2014, è riuscito ad ottenere lo status di rifugiato politico e, come da regolamento ora ha sei mesi di tempo, per lasciare il progetto di Rieti e diventare di nuovo autonomo.
Senza prospettive di trovare un lavoro come farmacista, Z.A. aspetta di trovare in Italia – o in un altro paese – un nuovo lavoro per guadagnare il denaro che gli serve per vivere, avere una casa e, magari, tornare all’università. Spera di recuperare il diploma di laurea che ha perso durante il viaggio.
Tuttavia, sa che non sarà facile e, spesso, la preoccupazione per la famiglia che ha lasciato in Siria, gli fa pensare di tornare indietro, nonostante i rischi che corre.
«I contatti con la mia famiglia sono difficili, perché le linee telefoniche sono disturbate e loro si trovano in un luogo difficile e pericoloso. So che devo preoccuparmi di me e del mio benessere, ma non posso non pensare a loro. Non posso essere felice. Voglio solo che questo conflitto finisca per tornare indietro. Più volte ascolto notizie sulla Siria e sento che dovrei essere la».
Se torna Z.A. sarà condannato dalla Commissione Militare perché non ha assolto il servizio militare obbligatorio. Rischia di essere imprigionato o anche la condanna a morte.
«In Siria avevo la mia vita: tutto andava bene prima della rivoluzione. Qui non so che cosa può succedere. Se potessi decidere ora – anche se la situazione è peggiorata – sceglierei di rimanere nel mio paese con la mia famiglia. Continuo a pensare di tornare indietro».
Per la sua esperienza in Europa Z.A. è disilluso: «Ora posso dire che l’Europa mi ha deluso. Pensavo che le cose sarebbero andate in modo diverso. Non mi aspettavo di essere arrestato in Germania, di essere rimandato in Italia e i miei amici che erano partiti con me – che erano esattamente nella stessa mia situazione – sono stati lasciati liberi di vivere in Germania. A volte mi chiedo che cosa ho fatto di sbagliato. Ho sempre cercato di aiutare: quando c’era un problema, ero sempre io che parlavo con le autorità. Ho pensato che con la mia educazione e i miei studi avrei potuto adattarmi facilmente a qualsiasi ambiente. Mi sono sbagliato».
La responsabile del centro di accoglienza gestito dalla Caritas dice cose buone su Z.A. e riconosce la serietà e l’impegno che ci sta mettendo per integrarsi: «Z.A. ha partecipato sempre con impegno a tutte le attività proposte, soprattutto al corso d’italiano nel quale ha avuto un buon risultato: adesso riesce a capire ed a parlare italiano e poi ha frequentato un corso di formazione e orientamento al lavoro e un stage formativo presso una pizzeria locale. La sua ambizione era quella di lavorare nel settore ospedaliero visto che lui è un radiologo e farmacista ma non e stato possibile perché non riesce ad avere i suoi titoli di studi e quindi ha scelto una professione alternativa.
Chiaramente, questa situazione gli crea molto disagio perché lui avrebbe voluto continuare a studiare, a fare il suo mestiere o, comunque qualcosa di attinente ai suoi studi. È molto demoralizzato per questa cosa: speriamo che in futuro possa riuscire a farsi arrivare i documenti che attestano la sua preparazione universitaria ma, adesso la situazione nel paese è molto difficile e quindi non riesce a farsi spedire queste carte».
Senza sapere che cosa il futuro ha riservato per lui, Z.A. aspetta giorni migliori e la possibilità di lavorare nel nostro paese e rifarsi una vita, nonostante tutte le disavventure. La domanda è se l’Italia si darà l’opportunità che tanto desidera.
«Nessuno è perfetto: siamo tutti qui per imparare. Sono venuto in Europa nella speranza di migliorarmi come essere umano e come professionista. Mi piacerebbe fare un lavoro di ricerca nel campo della scienza. Ma, la verità è che qui non ho opportunità».