Un uomo di compagnia

Il rito dell’ordinazione episcopale inizia con il solenne canto del Veni creator Spiritus. Da secoli le navate delle nostre chiese riecheggiano delle parole e della melodia di questo antico inno, ogni qualvolta la Chiesa sente il bisogno di non poter agire da sola, ma guidata, sostenuta, illuminata, vivificata dallo Spirito.

La Chiesa confessa che senza lo Spirito di Gesù non può far nulla. Essa dichiara con ferma consapevolezza l’esistenza di un legame indissolubile tra lei e lo Spirito. Già quello che viene chiamato Concilio di Gerusalemme, ricordato in Atti 15,1ss, primo della storia della comunità cristiana, dovendo affrontare un problema vitale a quel tempo e trovarne equilibrata soluzione, esprime l’inscindibile nesso tra lo Spirito e la Chiesa dicendo: «È parso bene allo Spirito Santo e a noi…».

Così inizia la lettera che gli Apostoli e gli anziani della Chiesa di Gerusalemme inviano alla comunità di Antiochia. È lo Spirito che plasma il noi ecclesiale e la concordia del noi ecclesiale è garanzia della presenza dello Spirito. Imbattersi in avventure o peggio in derive individualistiche fosse anche dall’alto spessore carismatico, mortifica la Chiesa. La Comunità credente, popolo e vescovo, deve sempre ricordare che custodire il “noi ecclesiale” è custodire la propria verginale maternità continuamente fecondata dallo Spirito per non cessare mai di “mettere al mondo” il suo Signore e dare alla luce sempre nuovi figli. Primo compito del vescovo è proprio quello di essere geloso custode e solerte promotore del “noi ecclesiale”.

Ho nostalgia dei giorni in cui il vescovo di Roma, parlando usava il “noi” erroneamente chiamato, da chi poco si intende di cose di Chiesa, plurale maiestatico; era semplicemente e in modo più profondo un plurale ecclesiale. Il papa non parla da sé, ma a nome e per conto della Chiesa; della fede della Chiesa è custode e garante, della comunione ecclesiale è segno visibile e promotore instancabile; della perenne compagnia dello Spirito che non cessa di guidare il popolo di Dio è memoria e invocazione.

Nessun vescovo dovrebbe mai parlare in prima persona, lui in qualche modo è visibilità della comunione ecclesiale, promuove la corresponsabilità di tutti, si spende perché risplenda sempre più il sommo bene dell’unità, perché i credenti siano un cuor solo e un’anima sola, abbiamo un solo pensare e un solo agire. Vibrino insieme all’unisono: lo Spirito, il vescovo, i presbiteri, i diaconi, i religiosi e i laici, questa è la Chiesa!

La mortificazione del noi ecclesiale, che non permette allo Spirito di parlare attraverso la pluralità delle lingue, sarebbe il più misero dei fallimenti cui un vescovo potrebbe andare incontro, trascinandovi inesorabilmente pure la Chiesa a lui affidata.

Questa inequivocabile e forte impronta ecclesiale viene espressa dal rito anche attraverso altri due segni.

Da una parte il fatto che a chiedere l’ordinazione del vescovo eletto siano due presbiteri in rappresentanza non solo dell’intero presbiterio diocesano ma di tutto il popolo di Dio che vive in Rieti.
Dall’altra la richiesta, da parte del vescovo ordinante, di esibire il mandato del Papa.

Si intrecciano in questo modo Chiesa locale e Chiesa universale, il noi della Chiesa reatina si inserisce nel più grande noi della Chiesa sparsa su tutta la terra, in una armoniosa sinfonia di comunione e di carità. Al vescovo diocesano è affidato il compito di mantenere viva la comunione della Chiesa locale con la Chiesa di Roma e con tutte le Chiesa, offrendo alla sua Chiesa garanzia di Cattolicità.

Il dialogo tra i presbiteri e il vescovo ordinate cui facevo menzione, se da una parte evoca l’antica prassi ecclesiale nella quale era tutto il popolo di Dio di ogni singola Chiesa a scegliere il proprio pastore chiedendo poi che venisse ordinato tale; dall’altra mette in evidenza, con la richiesta del mandato del papa, che il vescovo non viene da sé, ma è mandato, inviato.

Questi verbi sono significativamente evocativi: il vescovo in mezzo a noi fa le veci di Cristo. Anch’egli, come Cristo l’Inviato del Padre, è inviato a noi, perché si faccia carico delle nostre debolezze, annunci la Parola della Vita, sia strumento di grazia, di libertà, di salvezza, preceda il suo popolo sulla via della santità e sia collaboratore della nostra gioia.

Come Cristo ha inviato gli Apostoli, così Domenico viene a noi come apostolo di Cristo, annunciatore e testimone del vangelo.

Comunemente si dice che il vescovo è successore degli Apostoli. È un modo molto improprio di esprimersi, se per Apostoli intendiamo riferirci al gruppo dei Dodici costituiti da Gesù. Se è vera la definizione che Pietro, in occasione della aggregazione di Mattia al gruppo dei Dodici, dà dell’Apostolo, uno «che è stato con noi per tutto il tempo nel quale il Signore Gesù ha vissuto fra noi, cominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di mezzo a noi assunto in cielo, uno divenga testimone, insieme a noi, della sua risurrezione» (Atti 1, 21-22), allora è evidente che gli Apostoli non possono avere successori. Infatti con la morte dell’ultimo Apostolo nella Chiesa di Cristo si chiude una fase: la morte di coloro che avevano vissuto con Gesù, avevano visto con i loro occhi le sue opere, ascoltato con le loro orecchie il suo insegnamento, lo avevano incontrato risorto, chiude il tempo dei Testimoni per eccellenza.

A nessuno è dato di prendere il loro posto, ma dopo di loro, per loro volere, altri si sono succeduti nella guida delle comunità cristiani, passandosi l’un l’altro, come un testimone, il deposito della fede trasmesso dagli Apostoli. Questo passaggio di testimone si chiama successione apostolica che significa che il vescovo attuale attraverso la linea ininterrotta dei suoi predecessori può far risalire il suo mandato agli Apostoli e garantire così l’aggancio diretto della comunità ecclesiale di oggi alla Comunità Apostolica, compito delicato ed esaltante, compito per il quale si richiede un supplemento di Spirito.

Ma della definizione petrina di Apostolo ogni vescovo dovrebbe ricordare almeno tre aspetti: la collegialità, l’espressione “con noi” ricorre due volte nel testo di Atti sopra ricordato e la collegialità è garanzia di eclesialità, è il profumo della freschezza del vangelo; l’intimità con Gesù, ricordando che prima di essere inviato (apostolo) un discepolo di Gesù deve saper “stare con Lui” per dare al proprio ministero il sapore del Pane e della Parola ricevuti dalla mensa del Maestro; l’apertura all’inedito, cioè la capacità di dar credito ad un Dio sorprendente che sa dare una svolta inattesa ad ogni avventura che la logica umana dichiara morta e sepolta.

One thought on “Un uomo di compagnia”

  1. Sac. Luigi Bardotti

    Carissimo P.Mariano,
    ti leggo sempre volentieri: gli articoli sul Vescovo e la sua identità Evangelica, nella tradizione della Chiesa mi sono preziosi, utili e anche necessari. Gli articoli che hai scritto sono una realtà e un orizzonte: realtà perchè …così è; orizzonte perchè in pratica le parole trovano una incarnazione e una interpretazione a vollte difficile e problematica. La concretezza della incarnazione in noi delle Verità è come una fisarmonica cvhe a volta allarga la Verità e a volte la restringe. E’ sempre una bella fatica capire il valore del “noi”. Grazie e…continua a scrivere. tuo d. Luigi Bardotti

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