Terminillo

Un fecondo rapporto con la terra: la «Benedetta economia» dei monaci nel reatino

I monaci benedettini, e in particolare i seguaci della riforma cistercense che dell’esperienza di san Benedetto voleva recuperare lo spirito più autentico, hanno avuto una parte non secondaria nella storia reatina e nell’attività di un’economia capace di interagire con l’ambiente locale

«Oggi si parla di “benedetta economia”. E possiamo dire che il futuro del mondo, della società, sarà benedettino: perché è dal monachesimo benedettino, da un’organizzazione della vita sociale ed economica basata su un certo modello, che dovremo sempre più prendere esempio». L’introduzione a una delle iniziative culturali offerte a villeggianti e turisti per l’estate del Terminillo nell’ambito del nutrito cartellone “A un passo dal cielo” padre Mariano Pappalardo la fa riferendosi a quello che è un contributo essenziale che l’esperienza del monachesimo che si rifà a san Benedetto ha lasciato alla storia: quella di un fecondo rapporto con la terra che felicemente si sposa con le intuizioni della Laudato si’ di papa Francesco (e il programma estivo diventa quest’anno anche un lancio della «Comunità Laudato si’» creata in seno alla fraternità monastica terminillese), enciclica che si ispira sì al messaggio francescano, ma non va dimenticato che san Francesco per molti aspetti si inserisce nel preesistente solco benedettino.

E lo sa bene padre Mariano che, coi suoi confratelli, gestisce il tempio dedicato al santo di Assisi e guida una comunità monastica di regola benedettina con questa coloritura francescana che, come precisato sin dall’inizio della sua esperienza al Terminillo, il sacerdote ha voluto rievocare nei collegamenti tra le due spiritualità, collegamento non certo estraneo ai primordi dell’esperienza di Francesco e Chiara d’Assisi.

Proprio nel giorno della ricorrenza liturgica di san Bernardo e alla vigilia di quella che, nel Proprio della diocesi reatina, fa memoria di san Baldovino, si è parlato, nel pomeriggio culturale ospitato nel salone sottostante il templum pacis del Terminillo, di quanto l’esperienza del monachesimo benedettino, in particolare quello cistercense, abbia avuto importanza nella storia. Un modo, ha detto padre Mariano nell’introduzione, per recuperare il giusto peso alla conoscenza di figure che, oltre quella essenziale di san Francesco, abbiano lasciato forte impronta nella storia religiosa e sociale della nostra terra. Del resto, quell’immagine di Frate Francesco che abbraccia Gesù crocifisso, riprodotta nella bella scultura lignea che, secondo una collaudata iconografia francescana, troneggia in una cappella laterale del tempio terminillese, è in realtà mutuata da san Bernardo, il principale esponente della riforma monastica cistercense che precedette di poco il francescanesimo.

E il santo assisiate, come attesta l’anonimo estensore degli Actus beati Francisci in Valle Reatina, attraversava questa terra, per raggiungere quegli eremi che costituiranno i santuari legati alla sua memoria, muovendosi spesso in barca attraverso quel lacus così legato alla figura di san Baldovino.

Proprio dell’abbazia di San Matteo al lago, “madre” della successiva San Pastore, fondata dall’abate Baldovino (di cui la Chiesa reatina conserva le reliquie e la memoria, pur se poco conosciuto a livello popolare), ha parlato il relatore dell’interessante incontro dedicato a “Il contributo dei monaci alla bonifica del piano reatino”: lo storico locale Roberto Marinelli, chiamato ad affrontare un tema interessante nell’ottica di valorizzazione delle risorse del creato in uno stile di piena concordia tra uomo e ambiente.

I monaci benedettini, e in particolare i seguaci della riforma cistercense che dell’esperienza di san Benedetto voleva recuperare lo spirito più autentico, hanno avuto una parte non secondaria nella storia reatina e nell’attività di un’economia capace di interagire con l’ambiente locale. L’attività di bonifica condotta dai monaci non riguardò in realtà soltanto il piano, ma fu anche, ha ben spiegato Marinelli, montana.

Come già i benedettini della prima ora, che garantirono un essenziale continuum di civiltà e di floridità economica e culturale dopo lo sfacelo dell’Impero romano, anche i cistercensi, nell’epoca precomunale, ebbero un ruolo importante in quell’opera di recupero del territorio, bonificando terreni malsani e in abbandono, sia con il lavoro diretto dei monaci sia come imprenditori, insegnando tecniche e organizzando il lavoro dei contadini con massima efficienza: la conca reatina, come altre zone vicine (si pensi alla conca di Avezzano e alla stessa valle umbra), tanto debbono alla loro azione. È quel paesaggio che, conoscendo il fenomeno dell’incastellamento, rimarrà sostanzialmente invariato, in questa come in tante altre zone, sostanzialmente fino alla riforma agraria degli anni Sessanta del Novecento.

Per venire allo specifico, il relatore ha rievocato la fondazione del monastero di S. Matteo al lago, il cui insediamento originario era nella zona di Terria: luogo ideale per tante attività lavorative (dalla pesca e caccia di fauna acquatica alla raccolta di giunchi essenziali per lavorazioni artigianali dell’epoca) legati appunto a quel lacus Velinus che era tornato ad invadere gran parte della valle reatina, dato che l’operazione della Cava Curiana realizzata dal console Manio Curio Dentato con lo scavo di Marmore, che aveva velocizzato il corso del Velino limitando l’impaludamento della piana di Rieti, non era certo qualcosa di facile da mantenere una volta venuta meno la grandezza economica e organizzativa della romanitas, per cui nel tempo le acque avevano tornato a invadere i terreni. Coi monaci cistercensi ci fu una grande opera di bonifica, ma poi, ha spiegato Marinelli, i terreni bonificati vennero rivendicati dalla Curia reatina, disputa che scoraggiò i monaci di S. Matteo, assieme al dato di fatto che una vera bonifica risultava un lavoro troppo improbo. Tale situazione portò alla decisione di trasferirsi alla corte di S. Pastore, abbandonando l’opera di bonifica e trovando nuova collocazione sull’altura a occidente del lacus.

I monaci, ha evidenziato Marinelli, avevano probabilmente già compreso allora che una bonifica “per svuotamento”, quella avviata dai romani ma assai difficile da mantenere, fosse un’impresa impossibile (e in effetti anche le ingenti operazioni poi condotte in epoca moderna dai più grandi architetti assoldati dai Papi non risolveranno del tutto: ci riuscirà soltanto quella bonifica “per contenimento”, limitando cioè la quantità d’acqua degli affluenti del Velino, operazione progettata all’inizio del XX secolo e concretamente realizzata solo attorno al 1940 con la costruzione delle dighe del Salto e Turano). Ecco allora che i cistercensi passarono a dedicarsi alla bonifica montana, tra boschi e vallate, passando a curare quegli importanti assi viari, come il valico di Fontecerro, che erano fondamentali anche per la transumanza. Non è un caso che nel 1480 il monastero di S. Pastore acquisisce quello di S. Egidio in Vallonina, altra presenza importante in questo impegno di bonifica montana, con la sapiente capacità di sfruttamento economico delle risorse boschive: di questo monastero oggi resta solo qualche piccola traccia tra la vegetazione di Fontenova, la località lungo la strada panoramica tra Leonessa e Terminillo, e a noi a vederlo ora sembra un posto assolutamente marginale, ma allora passava lì la via privilegiata per il commercio della lana che univa Firenze a Napoli.

I monaci di S. Pastore non dimenticheranno il luogo originario, che sarà chiamato “i colli di S. Pastore”, mentre “istmo di S. Pastore” venne chiamata la lingua di terra tra il punto di confluenza del Turano nel Velino e il castello dei Varano a Terria. Toponimi che ancora oggi restano a testimoniare l’azione di chi, in un rapporto fecondo con “madre terra”, ci consegna la testimonianza di una capacità di interagire col territorio in modo saggio e attento alle esigenze di quello che oggi chiamiamo bene comune.