Tecnologia

Tra cervello umano e Intelligenza Artificiale non c’è partita

Due scuole di ricerca sulla IA affrontano il nostro sistema cognitivo. Ma è inutile cercare un vincitore: la IA non è un organismo estraneo al cervello umano, anche se fa di tutto per sembrarlo

Dell’Intelligenza Artificiale (IA) si parla generalmente a un livello di superficialità sconcertante. Se ne parla a molti livelli. Anche autorevoli. Entusiasti e detrattori si muovono su piani di considerazioni che non scalfiscono minimamente la superficie del problema. Non riescono a discostarsi da un tracciato così elementare da lasciare interdetti. Un approccio più consono a una recensione postuma di Star Trek dove l’alone della fantascienza arcade permette ancora un approccio sentimentale e senza impegno al mondo misterioso e potenzialmente salvifico della tecnologia.

Le questioni che riguardano la AI, la sua implementazione, la sua strutturazione e i suoi utilizzi, vanno direttamente al nocciolo di questioni filosofiche che sono alla radice del nostro stesso sistema cognitivo. A pensarci bene non potrebbe essere diversamente. Qualunque strada si prenda, l’articolazione di un sistema di decodifica e sintesi dei dati di realtà finisce per toccare una unica sfera di problemi. Cosa è intelligenza, cosa è conoscenza, cosa è realtà.

In una recente intervista il professor Geoffrey Hinton, un entusiasta della AI, individua aspetti da cui prendere spunto per considerazioni più estese a un campo propriamente umanistico. Geoffrey Hinton ha una storia piuttosto lunga nel campo della ricerca sull’intelligenza artificiale. Nel 2012 si tenne la terza edizione di un concorso abbastanza sconosciuto, chiamato “Imagenet competition”. Nello specifico si chiedeva ai partecipanti di progettare un software in grado di riconoscere mille forme, che si trattasse di persone, animali o paesaggi. Nei primi due anni i migliori team non furono in grado di produrre sistemi la cui accuratezza superasse il 75%. Il terzo anno ci fu una squadra composta da un professore e due suoi studenti che superò la prova con una percentuale di successo superiore a quella richiesta. Quel professore era Geoffrey Hinton.

Nella sua recente intervista, Hinton offre molti spunti di riflessione, tutti controversi ovviamente. Quasi tutti meritevoli di sviluppo. Egli tiene posizioni molto pragmatiche, eminentemente tecnologiche, ma al tempo stesso assai lucide. Tali da poter essere sviluppate in un ambito prettamente filosofico, dove credo possano diventare di notevole interesse.

Un primo spunto viene dalla analisi dei ricercatori AI riguardante la gestione ed elaborazione delle immagini da parte del nostro cervello. Come si forma il nostro mondo visivo, immaginato o percepito. Va ricordato, anche se appare scontato, che il cervello umano è il riferimento imprescindibile per qualsivoglia implementazione delle intelligenze artificiali. Una scuola, guidata da Stephen Kosslyn, sostiene che la nostra gestione delle immagini è essenzialmente un continuo rimescolamento dei pixel che le compongono. La cosa è sia interessante che controversa. Il fulcro di questo pensiero è la convinzione che alla base di tutte le immagini e tutte le forme, vi sia una sorta di magma indifferenziato che trova la sua temporanea, singolare e transitoria strutturazione in risposta a uno stimolo, una necessità, un rimando della materia o delle sue frequenze. Come se, di volta in volta, il cervello raccogliesse i pixel che servono per dar corpo alle entità che intercetta per le ragioni più eterogenee, all’interno delle sue sinapsi o attraverso i canali percettivi diffusi nei sensori di tutto il corpo. L’immagine e la forma diventano improvvisamente singolarità dell’indifferenziato grazie a una sollecitazione. Sostanziando una natura strumentale, priva di una essenza che la distingua veramente da tutto il resto.

Questa scuola parla di pixel, potremmo chiamarli in qualsiasi altro modo, bottoni, bulloni, mattoni. Non fa differenza. Il pixel è la definizione di una unità di misura. Si tratta di una formulazione teorica di ricercatori IA. Niente di più niente di meno. Ma è evidente come porti in sé una potenziale riflessione generale sul senso stesso della realtà.

L’altra scuola parte da un presupposto molto diverso. Pone in secondo piano l’elemento costitutivo per focalizzarsi sul processo. Partendo dal presupposto che la visione pixel-related è un non senso, definisce la nostra gestione delle immagini come una gerarchia di descrizioni strutturate. La differenza è sostanziale. Mentre la prima scuola non evidenzia questioni di causa effetto, e quindi sottende un principio fondamentalmente meccanicistico, la seconda va in una direzione differente. Ipotizza la questione gerarchica. La questione gerarchica è interessante perché dà corpo al principio di conseguenza. Se una cosa è conseguente, ha una ragione che la precede, e una ulteriore conseguenza che la segue. Fa parte cioè di una concatenazione. Non è affioramento, per lo più indistinto, di singolarità tra le quali è difficile individuare una relazione, sottesa evidentemente come casuale.

La seconda scuola sembra delineare un sistema cognitivo che parte dalla ipotesi di un “significato”, qualunque valore si voglia dare a questa parola. Significato in questo caso non va inteso in alcun modo come escatologico, confessionale o morale (qualunque confessione di pensiero o morale si prenda a riferimento).

Da queste due interpretazioni è chiaro come il tema della AI possa diventare un ottimo pretesto per ripensare le teorie riguardanti le sfere cognitiva e linguistica. I ricercatori AI, mi riferisco a quelli di matrice anglosassone, procedono sul cervello come su un tavolo di dissezione. Riescono a farlo con grande lucidità e un pragmatismo ineguagliato. In questo sta il loro più grande contributo. Ciò che manca, dal mio punto di vista, è la evoluzione umanistico-filosofica delle questioni. Quella attiene a un ambito diverso. Quello prettamente conseguenza del rovello filosofico umanistico mitteleuropeo.

Credo sia possibile ed auspicabile una riproposizione del tema AI differente dal derby con il cervello umano, nella ricerca spasmodica quanto inutile di un possibile, apocalittico vincitore. Quello va bene per le serate nostalgiche con Star Trek, patatine e Coca Cola. Il derby esiste solo nell’ambito di una narrazione manipolata e fuorviante, i cui fini sono perlopiù politici e commerciali. Non può esserci partita tra due contendenti che in realtà sono uno. La IA non solo non è un organismo estraneo al cervello umano, anche se fa di tutto per apparirlo. È la mappatura di partenza di una struttura cognitiva che rimbalza sul nostro cervello, punto di partenza e ritorno di ogni forma del sapere possibile, passato presente e futuro.