Da qualche giorno è possibile nuovamente ammirare una delle opere scultoree più celebri di Michelangelo: la “Tomba di Giulio II” nella chiesa di San Pietro in Vincoli a Roma. Il restauratore, Antonio Forcellino, ha svolto un impegnativo lavoro di pulitura (rispettando la patina del tempo) sul prezioso marmo di Carrara, al fine di restituire all’opera il suo aspetto nitido e imponente; mentre Mario Nanni ha curato la realizzazione di un nuovo impianto di illuminazione per ricreare le stesse condizioni di luce presenti nella chiesa nel XVI secolo, prima che venisse chiusa una finestra che si apriva sul monumento.
La tomba di Giulio II è tra le opere più note del Rinascimento italiano, soprattutto per la statua del Mosè, straordinario esempio di bellezza, virtuosismo anatomico e tensione morale. La realizzazione del mausoleo di Papa Della Rovere ebbe una lunghissima gestazione che impegnò il maestro fiorentino dal 1505 fino al 1545; lo stesso artista definì l’impresa come: “la tragedia della sepoltura”. Michelangelo inizialmente aveva ideato un’enorme struttura a pianta rettangolare contornata da circa quaranta statue (tra cui gli struggenti Prigioni), secondo una visione unitaria di architettura e scultura che doveva assecondare un preciso programma iconografico, vasto e complesso, tale da definire visivamente la grandezza di Papa Giulio II e della Chiesa stessa. Inoltre, il complesso monumentale doveva essere collocato proprio nella basilica di San Pietro, in posizione di rilievo. Ma il progetto si arenò quasi subito e, nonostante Michelangelo ritornò più volte ad attendere i lavori proponendo ben altri cinque progetti, occorrerà aspettare il 1545 perché l’opera fosse definitivamente conclusa, con l’intervento di un altro Papa, Paolo III. Michelangelo nell’ultimo progetto abbandonò l’idea di una struttura isolata limitandosi a un complesso architettonico addossato alla parete, ridusse drasticamente il numero delle statue e cambiò il luogo di destinazione nella chiesa di San Pietro in Vincoli. Ma nonostante queste nuove indicazioni l’opera non risultò affatto svilita, riuscendo a conservare la monumentalità e l’assoluta bellezza plastica.
Il maestro fiorentino, avanti con l’età e ansioso di terminare il progetto, decise di affidarsi ad aiuti per alcune parti del mausoleo collocate nella zona superiore del complesso architettonico, come per le statue della Sibilla e del Profeta e per la Vergine con Bambino, opera di Raffaello da Montelupo, il quale partecipò anche alla realizzazione finale delle figure di Rachele e Lia, presenti nella zona inferiore e già abbozzate da Michelangelo qualche anno prima. La scultura di Rachele colpisce soprattutto per la sensibile flessuosità dei movimenti del corpo e l’espressione estatica sembra addirittura anticipare alcuni linguaggi figurativi propri del Barocco e del Bernini.
L’ultima opera che venne inserita nel monumento, Michelangelo l’aveva realizzata nel 1515, si tratta del famoso Mosè. In origine l’opera non era come la si vede oggi, il patriarca biblico era rappresentato in posizione frontale e statica, alla stregua delle grandi rappresentazioni delle divinità della Grecia classica. Nel 1542 l’artista apportò significative modifiche, volendo andare oltre i canoni dell’idealizzazione antica e superare la metrica figurativa dell’estetica rinascimentale. L’immagine è un insieme vibrante di vigore fisico e tensione spirituale che procede attraverso il gioco serrato delle masse plastiche che si sovrappongono: dai tendini tesi delle braccia al movimento, alla gamba che si flette, fino a quel repentino voltarsi del viso terribile, austero e nobile di Mosè, con la sua barba folta e fluente che scende come un fiume di sapienza sul corpo e si armonizza con il panneggio dell’abito. Oggi grazie al nuovo intervento di restauro possiamo osservare l’opera con quella luce e quel candore che nel Cinquecento irradiavano il simulacro terreno di uno dei più celebri pontefici del Rinascimento.