Malattie autoimmuni: una recente ricerca americana, per ora testata solo sui topi, dà nuove speranze
Un’altra delle sfide ancora aperte che la medicina deve affrontare è quella delle “malattie autoimmuni”. Con questo termine generico si fa riferimento a tutte quelle alterazioni del nostro sistema immunitario che generano risposte immuni anomale o autoimmuni (cioè, rivolte contro l’organismo stesso), determinando un’alterazione funzionale o anatomica nel distretto colpito.
Va comunque distinto il concetto di malattia autoimmune da quello di una normale reazione autoimmune. Quest’ultima, in realtà, è un fenomeno biologico estremamente frequente nell’ambito delle normali funzioni di difesa volte dal sistema immunitario, a livello di un organo oppure di alcuni tessuti.
Nella malattia autoimmune, invece, il sistema immunitario diventa incapace, al termine di una fisiologica risposta infiammatoria, di “spegnere” i processi diretti contro l’organismo o di prevenirne lo sviluppo al di fuori di essa. Anche in questo caso, il processo di attacco autoimmune contro gli antigeni può riguardare singoli distretti, tessuti, organi o apparati, oppure avere ricadute dirette o indirette sull’intero organismo (malattia autoimmune sistemica).
Secondo le conoscenze attuali, la causa preponderante delle malattie autoimmuni è da ascriversi ad una predisposizione genetica. Cosicché, gli unici rimedi ad oggi utilizzabili sono farmaci che diminuiscono gli effetti infiammatori (corticosteroidi, antinfiammatori), oppure che deprimono all’origine l’azione del sistema immunitario (immunosoppressori). Ma in quest’ultimo caso, purtroppo, l’organismo, privato delle sue difese naturali, rimane più facilmente esposto a varie e pericolose infezioni (infezioni opportunistiche), che possono risultare gravi o addirittura mortali.
Risulta perciò di grande interesse e speranza una recente ricerca – pubblicata su Science – condotta da un gruppo di ricercatori della Penn State University (Pennsylvania, USA) che avrebbero ottenuto l’innovativo risultato di rimuovere l’insieme delle cellule che producono gli anticorpi, all’origine di una patologia autoimmune, senza intaccare il resto del sistema immunitario.
Per ora, l’esperimento è stato condotto solo sui topi, ma rappresenta sicuramente un importante passo avanti nella terapia delle malattie autoimmuni. Infatti, già si progettano nuove sperimentazioni su altri animali e, in prospettiva, anche sugli esseri umani.
Più in dettaglio, la malattia trattata dai ricercatori statunitensi è il “pemfigo volgare”, una patologia cronica e in molti casi letale. Essa causa un attacco da parte delle cellule del sistema immunitario contro una proteina (denominata desmogleina-3), responsabile dell’adesione tra le cellule cutanee. La mancanza di questa adesione si manifesta con vescicole, erosioni e ulcerazioni che portano a una progressiva degenerazione della pelle.
Per rispondere a questa malattia senza deprimere l’intero sistema immunitario dei topi, gli studiosi della Penn State University si sono serviti di una nuova strategia terapeutica, basata su un’idea già consolidata. Negli anni ottanta, infatti, la scienza aveva provato a combattere i tumori, producendo una versione ingegnerizzata dei linfociti T (una delle principali popolazioni di cellule immunitarie). Per molti anni, però, date le enormi difficoltà tecniche per realizzare l’idea, la metodica non aveva avuto successivi sviluppi. Fino al 2011, quando invece si è pensato di applicarla per attaccare e distruggere un altro tipo di cellule immunitarie, i linfociti B, che appunto possono attivare processi autoimmunitari.
“L’idea iniziale – ha spiegato Michael Milone, coautore dello studio – fu che avremmo potuto adattare questa tecnologia per eliminare in modo specifico le cellule che producono anticorpi e causano patologie autoimmunitarie. Si tratta di una strategia efficace e anche sicura, perché consente di risparmiare le cellule sane che ci proteggono dalle infezioni”. L’esperimento ha mostrato di funzionare bene sui topi cavia, che possono sviluppare il pemfigo volgare con effetti letali, senza però che si verifichino apparenti effetti nocivi sul tessuto sano. Nella sperimentazione, le cellule T ingegnerizzate hanno infatti distrutto i linfociti T che aggrediscono la desmogleina, prevenendo la formazione di vescicole e altre manifestazioni di autoimmunità. Tanto che già si pensa di estendere la sperimentazione su altri animali. “Se potessimo usare questa tecnologia – ha aggiunto Milone – per curare il pemfigo in modo sicuro nei cani, sarebbe un grande progresso per la medicina veterinaria, e potrebbe aprirsi la strada alla sperimentazione sugli esseri umani”.