“Murata viva” e felice: suor Chiara Margherita si racconta al Meeting diocesano

“Ci ha messo un po’ di tempo a lasciare gli ormeggi della vita precedente, poi ho capito che quello che cercavo era già dentro di me”. Suor Chiara Margherita Celestini, 39 anni, è una suora di clausura del monastero di Santa Chiara di Rieti, ma ha potuto raccontare la sua storia ai ragazzi riuniti a Leonessa per il Meeting diocesano.

Suor Chiara viene da Riccione, “una zona piena di tutto tranne che di Dio”, dalle discoteche, dalla vita notturna e spensierata che ha vissuto in pieno insieme ad i suoi amici e grazie ad un tenore di vita benestante. Viaggi in ogni angolo del mondo, balli, shopping, serate in compagnia nei locali di tendenza della riviera: il massimo.

Eppure la soddisfazione che ne scaturiva pareva effimera, insoddisfacente: “avevo tutto e mi sembrava di non avere niente”. Suor Chiara arrivava a sera carica di esperienze bellissime, invidiate da tutti i ragazzi della sua età, eppure non era felice, c’era qualcosa che non coglieva, ma allora non era facile: “avevo una vita all’apparenza perfetta, eppure avevo percezione di cercare solo di accaparrarmi esperienze, senza un vero senso profondo”. Un percorso difficile, a tratti incomprensibile: “cercavo di riempirmi il cuore riempendomi gli occhi”, avevo tutto, studiavo economia a Bologna, potevo togliermi ogni sfizio, ma continuavo a star male.

Suor Chiara inizia il suo percorso pian piano, dedicando il tempo libero ai bambini dell’oratorio, poi lascia l’università, diminuisce le otto ore di lavoro a quattro per avere più tempo per loro, e già gli amici iniziano a storcere il naso, addirittura pensano si droghi. Il duemila, con l’arrivo del nuovo millennio, porta con sé la meditazione, la svolta, l’Ora di suor Chiara. “Ho passato il Capodanno tra il 1999 e il 2000 a Sidney con gli amici. Un viaggio meraviglioso, alla scoperta di posti splendidi, con il portafogli pieno grazie alle aziende di famiglia, eppure l’insoddisfazione si faceva sempre più forte, addirittura dolorosa”. Alla vigilia del Ferragosto del 2000 il ritorno dall’ennesimo viaggio con gli amici, stavolta nel turbine di Londra, “avevamo dormito sì e no dieci ore in tutto”, un pomeriggio di zapping sul divano di casa per riprendersi dalla stanchezza della vita mondana, con le valigie ancora da disfare. Il telecomando indugia sugli occhi felici dei giovani che partecipavano alla Giornata Mondiale della Gioventù di Tor Vergata a Roma.

“Fu qualcosa che mi attirava, quegli occhi mi chiamavano, mi catturavano. Non sapevo cosa fosse”. L’Ora prende vita la sera stessa nell’immagine stanca e minata dalla malattia di un vecchietto che tentava di rispondere al ritmo dei ragazzi, faceva goffamente la ola, partecipava come poteva al loro entusiasmo. Quel vecchietto era Papa Giovanni Paolo II, la sua frase attraverso la televisione commosse suor Chiara: era quella la chiave che aveva cercato fino ad allora, quel “Gesù che cercate quando cercate la felicità”.

È l’inizio del cammino verso la realizzazione, un cammino punteggiato di incontri, che talvolta prende una piega tragica, soprattutto attraverso la reazione dei genitori anziani ed abbienti. “Erano delusi, arrabbiati, impauriti. Dovevo solo mettermi a capo delle loro aziende, quelle che loro avevano fondato e reso floride, eppure lasciavo il tutto per il niente, addirittura la clausura: papà minacciò di denunciare i sacerdoti che avevo incontrato, andò dai Carabinieri, ingaggiò perfino un investigatore privato per capire come vivessero le murate vive, come veniamo chiamate nei nostri territori”. Suor Chiara spiega cosa voglia dire vivere un’esistenza che a noi appare incomprensibile, non avere il telefonino, ricevere visite solo un paio di volte l’anno, guardare il mondo esterno solo attraverso una grata. “Questa vita che ai più sembra assurda, è quello che avevo sempre cercato, e mi illudevo di trovare nei viaggi e nei locali. Semplicemente dopo il mio cuore, ho donato anche il mio corpo al Signore: 24 ore al giorno”.