Convegno

Suicidio assistito, deriva pericolosa

Dibattito in aula consiliare con la bioeticista Assuntina Morresi alla vigilia della scadenza fissata dalla Consulta: un problema che ci riguarda tutti, si smantella l'idea di solidarietà

Pochi giorni ormai al 24 settembre, scadenza fissata nel novembre scorso dalla Corte Costituzionale, con la “famigerata” ordinanza 207, perché il Parlamento legiferi in merito alla questione dell’articolo 580 del Codice Penale che punisce l’istigazione e l’aiuto al suicidio, in seguito alla nota vicenda di Cappato e DJ Fabo. Difficile, salvo effettivamente – come auspicato da tanti, fra cui il presidente della Cei Bassetti – si ottenga una proroga, riuscire a evitare che la Consulta si pronunci per una parziale depenalizzazione di tale reato intervenendo (non essendo organo legislatore) inevitabilmente “con l’accetta” e dunque senza una normativa ben pesata.

In una sostanziale indifferenza del sistema mediatico, sul tema ci si è voluti interrogare, nella piccola realtà reatina, con l’incontro svolto giovedì pomeriggio nella sala consiliare del Municipio su iniziativa dell’associazione l’associazione politico–culturale Io ci sto (legata alla omonima lista civica presente in consiglio comunale), invitando come relatrice un’esperta di questioni bioetiche quale Assuntina Morresi, la quale già a febbraio, nella stessa sede, aveva partecipato a un dibattito sul tema del gender assieme al vescovo Domenico Pompili.

È toccato al presidente dell’associazione Andrea Cacciagrano introdurre l’incontro su “Suicidio assistito, il punto di non ritorno”: un tema delicato, ha detto, e alquanto divisivo, su cui «le prese di posizione pregiudiziali sempre facili da mettere in campo: per questo si è voluto proporre un dibattito», principale artefice la consigliera comunale Letizia Rosati. Un tema, ha ribattuto quest’ultima, «sicuramente non un da tweet, richiede una popolazione che si interroga. Volevamo lasciare un sasso: è giusto informarci, anche in una realtà piccola come la nostra è importante accedere a queste informazioni, perché prima o poi ci riguarderanno tutti».

E già: sembrerebbe un qualcosa riservato a casi limite, sicuramente non riguardante la maggioranza delle persone, ma in realtà, ha spiegato la relatrice, una volta che certe porte si aprono, poi non ci si ferma più e – Olanda docet – si può giungere persino a considerare lecito o addirittura doveroso togliersi di mezzo quando ormai si è vissuto abbastanza…

Assuntina Morresi – bioeticista dell’Università di Perugia, componente del Comitato nazionale di bioetica, editorialista di Avvenire – ha iniziato richiamando innanzitutto i termini giuridici della questione apertasi col quesito posto alla Consulta dalla Corte d’assise di Milano in seguito all’autodenuncia che il radicale Marco Cappato, dopo aver accompagnato DJ Fabo a morire in una clinica svizzera, aveva volutamente produrre proprio per creare il caso. Di fronte al termine ultimo – cosa del tutto inedita – posto dalla Corte, il Parlamento «non ha fatto assolutamente niente: si è sì discusso di eutanasia, ma il problema in questo caso non è l’eutanasia, ma questo articolo del Codice Penale. Sarebbe stato sufficiente che almeno il Parlamento incardinasse un provvedimento. Ormai è difficile che la Consulta conceda un rinvio: ragionevole aspettarsi che dichiari parzialmente depenalizzato l’aiuto al suicidio».

Giuridicamente, ha spiegato la relatrice, c’è differenza tra i due concetti: «eutanasia è l’atto che provoca la morte di una persona che ha chiesto di morire per eliminare la propria sofferenza, che sia un atto diretto (iniezione letale) o omissivo (staccare il macchinario che tiene in vita). Oggi si tende a intendere l’eutanasia solo come atto diretto, da alcuni non più considerata eutanasia il fatto di staccare un macchinario». Quanto al suicidio assistito, si tratta invece di aiutare la persona a morire da sola: «il medico porge al malato una bevanda per morire. In sostanza cambia poco: diversa è la modalità di esecuzione, col suicidio fai da solo, ma nella clinica in cui si svolge viene preparato il tutto dal personale medico».

Ma perché la questione – ed è grave che non se ne parli – in realtà può riguardare tutti e non soltanto i casi limite? Introdurre la morte medicalmente assistita, ha chiarito la Morresi, «è una cosa che riguarda tutti noi, anche chi pensa che non la vuole!». Si fa infatti avanti una pericolosa idea di fondo: «se tu soffri in maniera intollerabile e chiedi liberamente di morire, io ti do tutte le possibilità». E attenzione, non si parla di – cosa da sempre non solo pienamente lecita ma addirittura in certi casi moralmente doverosa – legittima interruzione di accanimento terapeutico: non è infatti eutanasia, ha tenuto a richiamare la relatrice, «interrompere il trattamento se esso è inefficace o se la persona non lo sopporta più (si pensi alla chemioterapia: se un malato non ce la fa più e decide di smetterla non è eutanasia!)»

È «grazie alla relazione col medico e all’oggettività del dato clinico» che si può definire un determinato atto eutanasico o no: «Ci sono tante condizioni in cui con serenità, con il medico di fiducia, con le persone intorno, si riconosce quando la morte sta arrivando o quando la persona non ce la fa più. Del tutto diverso, invece, è provocare una morte che non arriverebbe».

Se il problema è il non voler soffrire, cosa che nessuno vorrebbe per sé o per i propri cari, allora va detto chiaramente: «Oggi viviamo in una situazione in cui ogni dolore fisico è controllabile: se non lo è, cambiate medico! Lo dico in modo scientifico, ci metto la faccia… Tutti i dolori di tipo fisico sono controllabili attraverso la terapia del dolore e le cure palliative». Se ci sono dolori insopportabili significa che non si sta facendo tutto ciò che la medicina consente, e «purtroppo in Italia la situazione è a macchia di leopardo, non dappertutto si agisce come si dovrebbe per lenire il dolore dei malati terminali: ma vi assicuro che negli hospice in cui questo si fa nessun malato chiede mai l’eutanasia!».

Il problema è un altro: invocare la liceità della libera scelta di morire sulla base di una insopportabile “sofferenza”. Che, a questo punto, può non essere semplicemente il dolore fisico (risolvibile appunto con le cure palliative): una persona, ha puntualizzato la Morresi, può soffrire molto per ragioni non fisiche, si pensi a chi ha perso un figlio… E se si accetta l’assioma che è lecito porre fine alla propria vita per far cessare una “sofferenza intollerabile”, «il punto è: chi la misura la tollerabilità di una sofferenza? Chi l’ha detto che una sofferenza psicologica è più tollerabile di una sofferenza fisica? Se il criterio è una sofferenza intollerabile, non c’è legge che tenga perché la tollerabilità è soggettiva, al punto che in Olanda si sta discutendo se introdurre l’eutanasia per “esistenza completata”. Se il criterio per rendere lecito dare la morte è semplicemente la sofferenza, nel momento in cui tu lo dai non c’è motivo per mettere un limite a esso» e si può dunque aprire la porta a qualunque scenario.

Altro punto dolens: la libertà di scelta. «Io dico alla persona che sta male “ti offro tutte le possibilità”: significa che la scelta di vivere è uguale alla scelta di morire». Se il criterio non è più la vita ma la libertà della persona, è evidente che cambia tutto il panorama. «Se quello che devo tutelare non è la vita ma la scelta, perché impedire a uno di buttarsi dal ponte? Perché fare un’azione di prevenzione del suicidio con chi lo ha tentato? Quella non è una libera scelta, non è una volontà? Perché impedire il suicidio se devo tutelare la libertà?». Cosa impedisce a una Noa (la diciassettenne olandese che ha scelto di lasciarsi morire di inedia per insuperabile sofferenza psicologica) di essere rispettata nella sua scelta con i medici di fatto obbligati ad assisterti nell’andare volontariamente verso la morte? Una volta superata la soglia, non ti puoi più fermare: l’eutanasia diventa un atto medico, quindi in sé positivo, «e allora perché negarlo ai bambini? Se è da vedere come un metodo positivo per togliere la sofferenza del vivere, perché porvi dei limiti?». Si dice: scelta libera della persona. Ma tale scelta «solo apparentemente è libera, perché è vero che la decisione è dell’individuo, ma essa è determinata dalle circostanze: e le circostanze non le decidiamo noi!».

Facendo venir meno ciò che è alla base del sistema di convivenza: l’umana solidarietà. A cominciare da quella del medico, il quale semplicemente «sta a guardare: come se dinanzi a uno che si sta buttando dal ponte io lo guardo senza far nulla perché “rispetto le sue scelte”…».

Tutto un altro modo di vedere rispetto a quello che il nostro ordinamento, in cui prevale il favor vitæ. La Morresi lo spiega con un esempio cui forse non si pensa: il caso dei Testimoni di Geova che, contrari alle trasfusioni di sangue in base alle proprie convinzioni, rifiutano di farle ai propri figli. In questi casi l’autorità sanitaria avverte il giudice tutelare che toglie momentaneamente la potestà genitoriale al padre e alla madre e decide lui per autorizzare la trasfusione. «A ben vedere, è la stessa cosa avvenuta in Inghilterra col famoso caso del piccolo Charlie: un magistrato ha deciso al posto dei suoi genitori. Ebbene, per tale caso abbiamo fatto un putiferio: perché invece quando ciò avviene per i figli dei TdG ci sta benissimo? È evidente: perché per noi è istintivo capire che per Charlie la decisione dei giudici era per farlo morire, per i figli dei TdG invece è per farli vivere».

E se l’ordinamento è fortemente ispirato al favor vitæ, «vuol dire che tutta la giurisprudenza tutela la vita, perché la scelta di vivere non è equivalente alla scelta di morire. Ma se io dico che va tutelata la scelta cambia tutto. Cambiano le coordinate in cui ci muoviamo».

Se il clima diventa quello in cui non c’è più la solidarietà, l’aiuto alle persone a vivere, ma si fa strada quella “cultura dello scarto” denunciata dal Papa per cui prima ci si toglie di mezzo, meno si dà fastidio e meglio è… allora addio alla solidarietà verso le persone più fragili! Occorre ribadirlo, e la Morresi, anche nel dibattito che è seguito al suo intervento, ci ha tenuto a farlo: «La civiltà di un popolo si misura dal modo in cui tutela i più deboli. Il diritto c’è perché è fatto per tutelare i deboli, i forti non ne hanno bisogno».

Vero, ci sono situazioni terribili di malattia, di sofferenza, «in certi casi nemmeno il teologo moralista sa dirti cosa è meglio…». Ma resta il dovere di curare il debole: «Il buon medico è chiamato a curare, e quando non può più curare a “prendersi cura”. In un clima di fiducia e in un contesto improntato al favor vitæ io mi fido del medico se mi dice “adesso basta”. Se imbastisco un clima in cui morire e vivere è la stessa cosa, allora cambia tutto, se c’è una sofferenza neppure mi ingegno per evitare la morte!». Ma non è quello che la nostra tradizione giuridica e il nostro sistema morale ha pensato.

Ed è ciò che la Chiesa pienamente approva, ribadisce il diacono Nazzareno Iacopini, direttore in diocesi della Pastorale della salute, presente in prima fila all’incontro nell’aula Calcagnadoro: «In questa nostra società che continuamente si trasforma e cambia, anche la Chiesa e la Pastorale per la salute che rappresento, ha bisogno di una continua messa a punto perché cambiano continuamente le malattie, cambiano i sistemi e i mezzi di cura, vengono avanti con prepotenza e velocità i grandi problemi della bioetica», dichiara Iacopini. «L’idea che possa essere legalizzata qualunque forma di suicidio assistito sarebbe devastante per il nostro sistema sanitario, devastante per le persone, devastante per la società, devastante per le famiglie, perché implicherebbe che l’eutanasia entrerebbe nelle nostre corsie ospedaliere, entrerebbe nelle nostre case, entrerebbe nel nostro sistema». E farne le spese sarebbero soprattutto «le persone più fragili, più vulnerabili e più deboli»: questa, dice, «non è civiltà!».

Lo dice senza mezzi termini la Chiesa, ma lo dice, ancor prima e a prescindere da qualunque visione di fede o non fede, semplicemente il buon senso.