“Ecco, vede,…abito anch’io nei paraggi, la incontro spesso per strada, sempre da solo. Poco fa, mentre tornavo a casa, l’ho vista rientrare. Mi sono detta che forse stasera non festeggiava in famiglia”.
Quando la società vuol dire atomizzazione, natale in solitudine, deflagrazione familiare, c’è sempre un segno. Connaturato nell’essere animale “politico”, nel senso di abitare con gli altri nella città di Aristotele, l’incontro è possibile, anche quando sembra che la solitudine sia diventata signora silente della nostra vita. Anche la sera di Natale. È così che in questo racconto di Alicia Giménez-Bartlett, “Natale d’ottobre”, un uomo destinato alla solitudine del ventiquattro sera riesce a scambiare quattro chiacchiere con una sconosciuta andata da lui un po’ per “predicare” la sua fede, un po’ perché il suo sesto senso femminile le ha suggerito che la solitudine, specie a Natale, è una brutta bestia.
Quello che emerge in una recente antologia della Sellerio, “Storie di Natale” (299 pagine) è proprio la dimensione del Natale “liberato” dalle remore religiose. Consegnato alla libertà assoluta di sentirsi ancora più soli, di cercare compagnia a pagamento, di assaporare in fondo il retrogusto di questa “liberazione”, fatto di merce, di luci, di strade affollate fino alle sette di sera e poi tristemente deserte, di riti laicissimi e assai poco, in realtà, liberatori.
Ad eccezione di “I quattro Natali di Tridicino”, di Andrea Camilleri, che si svolge nel mare di Sicilia e affonda le radici nei miti arcaici e nelle leggende dei pescatori, gli altri racconti di Giosuè Calaciura, Francesco M. Cataluccio, Antonio Manzini, Francesco Recami e Fabio Stassi prendono di petto questa nuova vocazione natalizia. Una vocazione laicizzata in un universo in cui sembra non tenere più il tessuto connettivo del racconto evangelico, una nuova vocazione tutta terrena che mostra dovunque le crepe della mancanza di orizzonti e di punti di riferimento.
I destini di un poveraccio e di un ricco notaio si incontrano-scontrano, nel racconto di Manzini, in una Roma che ha perso ogni connotato aggregante ed è abbandonata al suo demone solitario, fatto di soldi e potere per il potere.
Il racconto più riuscito, corale, denso di ironia ma anche di benevola e paziente coscienza dei limiti dell’uomo (i limiti antichi, non solo gli attuali, e questo rende il brano più pregnante) è “Natale con i tuoi” di Francesco Recami: un gruppo di passeggeri è bloccato la notte di Natale in un autogrill chiuso per una bufera di neve. I rapporti che nascono da questa casualità prendono la dimensione dell’arte dell’incontro che è la vita, come diceva, anzi cantava Vinicius de Moraes, in un disco che dovrebbe rimanere nella storia della musica, anche perché lì dentro c’erano le voci di Ungaretti (!) e Sergio Endrigo.
Quel Natale fatto di quello che c’è, in un luogo rovesciato perché, pur destinato alla folla, ora è spettralmente vuoto, è la cifra della raccolta e insieme un invito a guardare diversamente le festività natalizie. Nel senso di accettare il presente senza sterili rimpianti ma nel contempo lasciarsi andare alla necessità del proprio tempo e dello spazio, all’incontro gratuito e imprevisto, appunto. Accettare la presenza dell’altro non previsto all’inizio sembra un sacrificio, ma lentamente si rivela una ricchezza, finché un giorno di molti natali dopo non si rimpiangerà quel natale fatato perché imprevisto, diventato leggenda, a cospetto di tanti altri natali “normali” e caduti per questo nel dimenticatoio.
Il messaggio che rimane è che tradizione religiosa non è necessariamente priva di senso in quanto “vecchia”: le mode che vorrebbero cancellare quell’antichità spariscono, e l’abisso dell’Evento rimane oltre quelle lievi increspature che chiamiamo tempo.
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