La storia di Memme e dei due “giusti”

Sarà presentato a Rieti giovedì 8 maggio alle ore 17,30 presso la Biblioteca Comunale Paroniana il libro “Memme Bevilatte salvata da Teresa”.

Non sempre a scrivere la storia sono i grandi. Tante le pagine scritte da donne e uomini comuni che, anche a rischio della vita, hanno scelto di stare dalla parte dei deboli, dei perseguitati, degli indifesi.

Anche Teresa Giovannucci e Pietro Antonini, moglie e marito, scelsero di stare dalla parte del bene e, durante l’occupazione tedesca, a rischio della vita, nascosero per nove mesi, all’interno della loro casa, otto ebrei, tra cui una bambina di tre anni, Miriam Dell’Ariccia, salvandoli da una morte certa.

È una bambina di due anni Miriam quando vengono applicate le leggi razziali e quando ancora non sapeva né leggere, né scrivere, deve imparare che il suo nome non era più Miriam Dell’Ariccia, ma Memme Bevilatte.

Ed è lei che racconterà la sua storia a Rieti nella biblioteca comunale giovedì 8 maggio alle 17.30 durante la presentazione del libro “Memme Bevilatte salvata da Teresa” del giornalista Italo Arcuri.

Ed eccola la “giusta” Teresa che non ha paura delle leggi senza senso emanate contro una popolazione intera, che va avanti per la sua strada nella convinzione che non si possano consegnare al nemico persone innocenti e bambini ignari.

Teresa era la domestica di casa del rabbino Marco Vivanti e della maestra Silvia Terracina. Quando le persecuzioni razziali nei confronti degli ebrei si infittirono, invitò l’intera famiglia a trasferirsi da Roma a Riano, paese in cui era andata a vivere dopo aver sposato Pietro e così gli otto ebrei rimasero nel nascondiglio segreto dal 30 settembre 1943 al 6 giugno 1944, giorno della liberazione del paese.

In quei terribili 250 giorni di nascondiglio Teresa e Pietro lasciarono alla famiglia Vivanti la loro camera da letto e si trasferirono a dormire in un locale adiacente al salone d’ingresso adibito a forno, utilizzato da tutto il paese e anche dai soldati tedeschi della vicina guarnigione per cuocere il pane e scaldare i cibi, su un pagliericcio trasformato alla bell’e meglio proprio sopra il forno a bocca grande in cemento.

Il 30 giugno 1993 Teresa e Pietro sono stati nominati “Giusti tra le Nazioni” e in loro memoria, a Gerusalemme, nel Giardino dei Giusti, è stato piantato un albero.

È Memme-Miriam a raccontare: «siamo stati nascosti sotto falso nome in casa di Teresa e a tutti diceva che eravamo profughi venuti dal Sud».

Non dimentica Miriam quanto fatto per lei e la sia famiglia da questi due giovani sposi e racconta di quel luglio 1938 «quando esce il manifesto della razza, firmato da dieci intellettuali fascisti e che diventerà legge dopo qualche mese».

Quel manifesto dichiarava gli ebrei cittadini inferiori e gli ebrei stranieri che vivevano in Italia dovevano lasciare il Paese.

«Agli ebrei – racconta ancora Miriam – era vietato possedere terreni, svolgere attività di pubblico interesse, non potevano essere occupati nella pubblica amministrazione, frequentare le scuole. Era loro vietato avere una domestica, possedere una radio, anche allevare piccioni. Era vietato ciò che era nella vita normale».

E dopo l’armistizio le cose peggiorarono, i tedeschi, sostenuti dai fascisti, cominciarono a praticare l’orrore delle deportazioni. «Le persecuzioni in Italia sono persecuzioni nazi-fasciste» dice Miriam «perché i fascisti hanno collaborato coi nazisti nella deportazione degli ebrei e purtroppo non solo degli ebrei. Va ricordato che nei campi di concentramento sono morti 6 milioni di ebrei, ma sono anche morti milioni di Rom, di oppositori al regime, omosessuali, handicappati, sono morti tutti quelli che venivano considerati diversi».

Per questo Miriam tiene a precisare che «il giorno della memoria non è solo il giorno in cui si ricorda lo sterminio degli ebrei, è il giorno della memoria di tutte le vittime della follia omicida nazista».
E anche Miriam e la sua famiglia avrebbero potuto prendere la via senza ritorno di campi di sterminio, se non fosse stato per i due giusti Teresa e Pietro.

«Mio nonno – dice Miriam – era un rabbino e lavorava nella comunità ebraica. Il 23 settembre Kappler chiama il presidente della comunità ebraica e gli dice di consegnare, nel giro di 36 ore, cinquanta chili di oro al comando tedesco, altrimenti la minaccia era la deportazione nei campi di concentramento di 200 uomini. I cinquanta chili d’oro sono stati raccolti, dagli ebrei e da coloro che hanno dato il proprio contributo anche non ebrei, cittadini romani».

Ma i tedeschi non si accontentarono solo dell’oro, si fecero dare gli indirizzari di tutti gli ebrei e la comunità a quel punto cominciò a capire che qualcosa di peggio e di tragico stava per succedere. Fu grazie a una donna polacca, incontrata per caso, che il nonno di Miriam seppe dei deportati.

«A quel punto mio nonno – prosegue Miriam – decise che rimanere a casa non era sicuro e così ci nascondemmo in una cantina a casa dei nonni e da lì sotto sentivamo gli stivali dei tedeschi che andavano e venivano lungo la strada».

Ed è in quel momento che compare Teresa arrivata a Roma dalle Marche per prestare servizio a casa dei nonni di Miriam.

«A 13 anni arrivò a Roma – ricorda Miriam – dove incontrò i miei nonni, che cercavano qualcuno che facesse compagnia alle mie zie che avevano la stessa sua età. Teresa, quindi, andò a lavorare da mia nonna che la trattò come una terza figlia tanto che crebbe insieme a mia madre».

Con l’avvento delle leggi razziali, non potendo più rimanere in quella casa, Teresa dovette andar via, cercarsi un nuovo lavoro, ma rimase legata alla famiglia. Poi il 30 settembre Teresa va a Roma a trovarli, ma non trova nessuno e viene a sapere che la famiglia era nascosta. pochi attimi e la decisione di andare in quella cantina, prendere tutti e portarli al suo paese dove aveva un forno.

Da lì un susseguirsi di giorni e notti vissuti nella paura di essere scoperti. Teresa aveva organizzato una fuga nella campagna attraverso una porta che dava sul retro da cui scappare e un nascondiglio dietro l’armadio dove ripararsi.

Miriam e la sua famiglia sono rimasti venti giorni chiusi in una stanza. «Mi ricordo una piccola sedia – dice Miriam – dove rimanevo immobile, senza parlare per ore perché dovevo far vedere che in casa non c’era nessuno, mi avevano inculcato il terrore, fatto capire che non potevo né parlare, né piangere, né ridere e giocare. Ho sognato i tedeschi per vent’anni».

La vita di Miriam e della sua famiglia andrà avanti così sino alla fine della guerra e Teresa ha continuato a dare ospitalità e aiuto a tanti altri. Il 6 giugno del ‘44 arrivano a Roma i primi carri armati degli americani e la famiglia è di nuovo libera.

Il terrore e la paura di essere scoperti e fucilati, perché qualcuno aveva fatto la spia, ma non c’era stato tempo di fucilarli tutti, sono in qualche modo alle spalle.

«Teresa e Pietro – dice Miriam – sono stati designati dallo Stato di Israele “Giusti tra le nazioni” ed è grazie a loro, e a tanti come loro, che io e molti altri, oggi possiamo raccontare al mondo la nostra storia».