Sortirne insieme è la politica

La conversazione con il Direttore dell’Inps di Rieti, pubblicata la scorsa settimana da «Frontiera», forse non aggiunge nulla di nuovo, eppure apre uno squarcio su uno scenario quantomeno preoccupante.

Assistiamo a generazioni con pochissimi contributi previdenziali versati, perché il lavoro è poco e di bassa qualità. Molto spesso, semplicemente, non si lavora o si lavora “in nero”. E mentre cresce il precariato, il settore produttivo non cessa di perdere pezzi, di delocalizzare, di trascinare avanti infinite vertenze.

Neppure il pubblico impiego è quello di una volta. Sono sempre meno quelli che riescono ad accedervi, mentre cresce il numero delle esternalizzazioni. E a lavorare negli “affidi all’esterno”, sono soprattutto persone costrette ad accettare paghe, contributi e diritti inferiori a quelli dovuti a chi svolge le stesse mansioni da dipendente pubblico.

Un numero incalcolabile di persone si trova in questa situazione, in bilico tra disoccupazione cronica e sfruttamento. Uomini e donne destinati ad irrobustire le fila dei nuovi poveri. Cittadini destinati ad aggiungersi agli altri che a fatica continuano a tirare avanti.

Già oggi con una pensione “normale” si campa a fatica. Come sarà il domani se quasi una intera generazione è stata bruciata, condannata ad arrangiarsi negli anni migliori e ad un assegno previdenziale ridicolo in quelli del tramonto?

Allo stato attuale, una vecchiaia da duecento euro mensili a settant’anni, al termine di una vita d’incertezza e “lavoretti”, è la dura prospettiva di tanti. È nella logica del nuovo sistema previdenziale.
Fino a ieri, l’idea di ventenni, trentenni e quarantenni alla ricerca di una identità sociale, specializzati in tutto, ma utili a niente e nessuno, che vagano tra le vie della città alla ricerca di qualcuno a cui chiedere un conforto, avrebbe potuto essere la trama di un brutto film.

Oggi sembrerebbe un crudo esercizio di realismo, al quale ricondurre anche i cinquantenni tagliati fuori dal sistema produttivo e tenuti in vita da ammortizzatori sociali in via di esaurimento; i sessantenni logorati dalla vita, continuamente investiti di emergenze di ogni genere e i cui redditi bastano a malapena a coprire le bollette; i settantenni costretti a scegliere se stringere ancora un po’ i denti o ripiegare su una pensione da fame.

Una situazione così drammatica parrebbe quasi chiamare alla rivolta, eppure nessuno sembra prenderla sul serio. E dire che il disagio sembra assai ampio, e capillarmente diffuso. Lo si percepisce anche se si fa vedere poco, perché spesso viene dissimulato per vergogna. In troppi vivono la propria difficoltà come una colpa, un fallimento personale, e di conseguenza lo nascondono. Ma si ingannano.

Il male è diffuso, ampio, condiviso, trasversale, “di massa”. Sarebbe da ricondurre ad una prospettiva sociale. Perché non lo si fa?

Forse a causa di una malriposta fiducia, per la speranza che prima o poi qualcosa cambierà. Oppure, al contrario, perché siamo preda di una sorta di pessimismo incarognito, di rassegnazione al peggioramento, di un sentimento di inevitabile declino. Ma soprattutto perché da troppo tempo abbiamo rinunciato a ragionare collettivamente, in cambio di un individualismo esasperato e sterile. Così ci affanniamo a cercare soluzioni personali a problemi cui dovremmo piuttosto rimediare tutti insieme.

A qualcuno può far comodo insistere sulla tesi del destino avverso, della congiuntura sfavorevole. In questo modo si possono lasciare le persone alla ricerca di qualche buco nella rete che le trascina verso il fondo senza troppi rimorsi di coscienza.

Ma i tentativi di fuga individuali non sembrano in grado di portare lontano. Forse, allora, occorrerebbe domandarsi quanto concorrano alla situazione le scelte “di sistema”, le riforme del lavoro e delle pensioni, l’opzione preferenziale per il mercato, lo smantellamento dei beni comuni.

Occorrerebbe, cioè, porre un problema “politico” e domandarsi se le scelte “tecniche” di questi anni – sempre dichiarate inevitabili e indifferibili – non siano piuttosto la maschera
di una “ideologia”, promossa da chi si avvantaggia dal continuo allargarsi della forbice sociale.

Il primo passo da fare sarebbe quello di cercare il filo conduttore dei disagi, di restituire significato alla parola “comunità”, di riconoscere quanto il problema degli altri sia uguale al mio. «Sortirne tutti insieme è politica» spiegavano i ragazzi di don Lorenzo Milani quasi cinquantanni fa, ma sortirne da soli, oggi, non è tanto un problema di «avarizia», è semplicemente impossibile.

Rimane tuttavia aperto il problema di quali forze si faranno carico di ricucire i discorsi, di costruire i ponti, di restituire una prospettiva sociale e pubblica alle questioni. A noi sembra che in questo campo la Chiesa sia chiamata a giocare un ruolo molto forte.

Qualcuno dirà che lo stiamo tirando un po’ per la giacchetta, ma tra le parole di Papa Francesco, non c’è anche una decisa esortazione in questo senso?

One thought on “Sortirne insieme è la politica”

  1. antonio

    Qualche tempo fa la cgil di rieti insieme ad altri promosse una fiaccolata per il lavoro e la solidarietà.

    La fiaccolata si concluse proprio sotto la sede della Diocesi di Rieti.

    Molti di noi vi parteciparono.

    Da allora non molto é cambiato in meglio, alcune cose sono cambiate in peggio.

    Non dovevamo essere dei profeti per prevedere cosa andava accadendo.

    Eppure a partire dal settore dell’ informazione capita di scorrere sempre lo stesso “non parlare”, si continua a raccontare il gossip degli attori del reatino, ma manca l’etica, il condiviso, il sistema che rende coeso un territorio, che ne fa sinergia delle risorse e delle forze.

    C’é una consolazione che però é anche una verità, per fortuna, ma solo per quella, qui da noi non c’é ancora la povertà assoluta e la malavita che vi si attacca come un parassita. non c’é ancora, forse.

    antonio polidori

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