Se nei concorsi conta la reputazione dell’Università

Fa discutere l’emendamento approvato alla Camera nell’ambito della riforma delle pubblica amministrazione. I pareri, in chiaro scuro, di Paolo Collini (rettore a Trento), Renato Masiani (già pro-rettore alla “Sapienza” di Roma), Francesco Bonini (rettore della Lumsa). Si aggraverebbe il già pesante gap degli atenei del Sud.

“Superamento del mero voto minimo di laurea quale requisito per l’accesso” e “possibilità di valutarlo in rapporto ai fattori inerenti all’istituzione che lo ha assegnato”: in queste poche e criptiche parole di un emendamento, votato nei giorni scorsi dalla commissione Affari costituzionali della Camera sulla delega per la riforma della pubblica amministrazione, si condensa il temporale che sta per abbattersi sulle università italiane. Le frasi dell’emendamento infatti significano che, nei concorsi per accedere a incarichi pubblici, nel caso la riforma passasse in quei termini, non varrà soltanto il voto di laurea ma verrà considerato anche l’ateneo che lo ha rilasciato. In una parola: tra due candidati che avranno preso entrambi 110 e lode, il primo nella università A e il secondo in quella B, potrebbe venire preferito il primo perché viene da una università che gode di una migliore “reputazione”. È facile immaginare le reazioni sollevate da una simile prospettiva: già la mattina di sabato 4 luglio, a Messina, in occasione della inaugurazione dei laboratori Panlab della locale università, il ministro del lavoro Giuliano Poletti è stato contestato da un gruppo di studenti, che hanno parlato di “sudore dei laureati che deve essere ripagato con la stessa moneta”.

Siamo ultimi per laureati in Europa. Rispondendo alle critiche, il ministro Poletti ha affermato che “una competizione positiva tra gli atenei che tenda a mettere al primo posto il valore, rappresenta una cosa positiva”. Ma non è riuscito a convincere i contestatori. Il firmatario dell’emendamento, Marco Meloni (Pd), messo sotto pressione a livello politico, ha spiegato che “il voto del candidato verrebbe considerato a seconda del voto medio che viene attribuito nella facoltà. Questo per impedire che gli studenti scelgano un certo indirizzo solo perché le valutazioni lì sono più generose”. Il tema dell’università è molto delicato per il nostro Paese. L’Italia è infatti, con il 22,4%, ultima per numero di laureati nell’Europa a 28 stati (oltre che quinta per abbandoni scolastici, al 17%). La media europea dei “dottori” è del 36,8% della popolazione. I paesi più virtuosi sono l’Irlanda con il 52,6%, il Lussemburgo (52,5%), Lituania (51,3%). Meglio di noi fanno la Romania (22,8%), Croazia (25,9%), Malta (26%). Purtroppo in Italia non solo si laureano in pochissimi, ma gli iscritti ci mettono moltissimo a finire gli studi: a nove anni dall’immatricolazione soltanto il 55% ha conseguito il titolo! È comprensibile che se, a queste difficoltà, si aggiungessero scelte “discriminatorie” tra atenei, potremmo assistere a una vera crisi delle università meno blasonate, che spesso si trovano al Sud.

Già il mercato guarda a “dove” uno si è laureato. Abbiamo chiesto ad alcuni rettori universitari e presidi di facoltà italiane cosa ne pensassero di questo emendamento. Paolo Collini, rettore a Trento, nota che “in tutto il mondo, le imprese che assumono laureati guardano da quali università vengono. Se consideriamo il sostanziale blocco del pubblico impiego di questi ultimi anni, stiamo perciò parlando di una percentuale piccola di nuovi assunti potenziali. Quindi mettiamo un’enfasi su un fenomeno che riguarda pochi”. “Del resto – prosegue – ci si deve interrogare perché uno studente che esce dalla tale università ha un primo stipendio di 1500-1600 euro e un pari livello uscito da un altro ateneo invece si vede offerti solo 1000 euro. Gli studenti, in Italia e un po’ dovunque nel mondo, conoscono le valutazioni delle varie università e sono disponibili a spostarsi e a fare grandi sacrifici pur di conseguire un titolo di studio presso una università che goda di ottimo ranking”. A proposito di valutazioni il rettore Collini osserva che comunque già disponiamo di due realtà molto accreditate: l’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca) e di Alma Laurea (Consorzio interuniversitario per favorire e monitorare l’inserimento dei laureati nel mondo del lavoro).

Non trattare l’università come “una pezza da piedi”. Secondo Renato Masiani, già pro-rettore alla “Sapienza” di Roma, “circola la credenza, tanto per le università quanto per i licei, che al nord si danno voti più bassi che al sud, creando condizioni più favorevoli per i laureati e diplomati meridionali nei concorsi pubblici. Ma, oltre alla difficoltà di dimostrare queste affermazioni, se si sancisse che una amministrazione pubblica può selezionare i laureati di una certa università rispetto ad un’altra, sarebbe come dire che si è introdotta l’abolizione del valore legale del titolo di studio”. E – aggiunge – “in tutti i casi, oltre al dovere di fissare dei criteri per tale selezione, ciò rischierebbe di accentuare la nettissima separazione già esistente tra le università del nord e quelle del sud, tutte in gravi difficoltà e che stanno perdendo studenti”. Il rettore dell’università Lumsa, di Roma, Francesco Bonini, ritiene che l’ipotesi in discussione “rappresenti una tipica fuga in avanti, di riforme concepite a brandelli e prive di una visione organica. Su questa strada, le università non sarebbero più considerate corporazioni riconosciute che rilasciano titoli, ma delle semplici istituzioni culturali che preparano a sostenere esami successivi, a cura di enti terzi come nel caso delle certificazioni linguistiche A1, B1, eccetera, emesse sulla base di competenze e accettate su scala internazionale”. Secondo Bonini, “la proposta è semplicemente irricevibile, non formulata nella sede giusta e con il dovuto respiro. L’università italiana sarebbe trattata come una ‘pezza da piedi’, così come si è fatto nei decenni scorsi, per la scuola, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti”. La discussione – come si vede – è solo all’inizio. Vedremo come la svilupperà il Parlamento.