«Se c’è un merito del Cammino neocatecumenale nei suoi 50 anni di vita, è stato quello di mostrare una fede semplice, concreta, comunitaria, giocata al massimo e non al ribasso. … Il Cammino si fa dentro la propria comunità, ma è un percorso transitorio per poi tornare nella grande Chiesa. L’istituzione, infatti, senza carisma si sclerotizza, così come il carisma senza l’istituzione si chiude. Occorre trovare momenti concreti e ripetuti in cui il Cammino come un affluente si getti nella Chiesa per fecondarla e, al tempo stesso, per esserne rigenerata».
È stato questo il passaggio centrale dell’omelia del vescovo Domenico, che ha allietato i cuori e gli animi di fratelli e sorelle neocatecumenali che sabato sera affollavano la Basilica di Sant’Agostino per celebrare con Sua Eccellenza la solenne liturgia eucaristica in occasione della ricorrenza della fondazione del Cammino avvenuta in Spagna da parte di Kiko Arguello e Carmen Hernandez.
E quello che più ha allietato il cuore del vescovo, il quale lo ha espresso e lo ha fatto capire esplicitamente, è stata la presenza alla messa, tra tante coppie di sposi e di anziani, di un centinaio di giovani e giovanissimi, studenti, universitari ed operai ricchezza della Chiesa reatina e del Cammino che monsignor Pompili ha invitato a partecipare al Meeting di Leonessa in calendario per la fine dell’anno.
«Ora, ad esempio, c’è il Meeting dei Giovani. Che aspettate ad iscriverti se avete tra i 18 e i 35 anni?». Prima della liturgia un saluto rivolto al vescovo Domenico da parte di Giampiero Donini che nel 1976, chiamato dal vescovo Trabalzini, insieme a padre Guglielmo, Franco Voltaggio e ad Alberto Scichitano, tenne le prime catechesi per i fedeli di don Giovanni Franchi e di don Mauro Laureti per le parrocchie di San Francesco Nuovo e Villa Reatina.
Giampiero, che si è rifatto ampiamente ai documenti conciliari Lumen gentium, Gaudium et spes, Sacrosanctum concilium, Dei verbum ha salutato il vescovo rinnovandogli l’obbedienza e sottolineando come egli era accolto e considerato dai fratelli del Cammino, erede degli apostoli che interpreta giustamente e sapientemente la pienezza e la missione di santificazione, insegnamento e governo della Chiesa.
Monsignor Pompili ha dimostrato bene di conoscere il Cammino, partecipando ai canti e battendo le mani in alcuni passaggi e citando nella sua omelia più volte le considerazioni e i pensieri di Kiko impegnato ancora e malgrado l’età in una predicazione che si svolge in tutti i Continenti e che ha dato frutti abbondanti alla Chiesa.
Come a Rieti con la nascita di una ventina di comunità neocatecumenali, con l’aver suscitato vocazioni di coppie che hanno catechizzato in numerose nazioni straniere, con il sorgere di vocazioni sacerdotali. Durante le risonanze succedute alla lettura del Vangelo, uno dei fratelli ha parlato della sua vocazione adulta, giunta alla frequenza del quinto anno presso il seminario Redemptoris Mater di Macerata.
«Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il Bambino sussultò nel suo grembo». «Quel che sembra una danza improvvisata da Giovanni il Battista ancora nel grembo – ha affermato il presule – fa emergere una dimensione centrale dell’esistenza. La danza ebraica, in particolare, è nata come gesto liturgico, che ha accompagnato la vita del popolo. Il Cammino neocatecumenale ha valorizzato questa traccia dell’ebraismo profondo assieme al tripode: Parola, Eucarestia, Comunità. Non senza qualche critica, ma facendo della danza un suggello dell’esperienza vissuta. Come Israele che si identifica con essa. Ma perché danzare? – si è chiesto monsignor Pompili – La danza parla il linguaggio della bellezza, oltre la semplice giustizia o la pura verità. Ci vuole un colpo d’ala nella vita per reagire a brutture e stanchezze. Non basta deplorare o denunciare. Non basta neppure di parlare di giustizia, di doveri, di bene comune. Bisogna irradiare la bellezza di ciò che è vero e giusto nella vita, perché solo questa bellezza rapisce veramente i cuori e li rivolge a Dio».
«La danza svela poi che l’uomo è spirito incarnato o, se si vuole, è carne spirituale. Perché danzare è più che una movenza fisica o una istintiva esaltazione. Dice piuttosto una tensione fisica ed emotiva, che esprime ricerca, autocontrollo, slancio, passione, fatica, dolore, amore. È un mix di corpo e di anima e questo è stato il pregio della riscoperta del catecumenato cristiano: la fede è annuncio, cambiamento di vita, liturgia nuova e partecipata. La danza in cerchio, infine, esprime una tensione unitaria verso lo stesso centro di gravità che è Cristo, pur da punti di vista differente. Dice che stiamo sulla stessa barca e tendiamo a qualcosa che è al centro rispetto a noi che siamo come eccentrici, cioè non occupiamo la scena. Danzare è bello e da piacere perché fa riassaporare la bellezza, fa sentire vivi, proietta oltre noi stessi. Di qui nasce la gioia de Natale. Come fu per Giovanni Battista, appena udì la voce di Maria che recava con sé il Bambino Gesù», ha terminato Sua Eccellenza.
È stato così che, dopo aver cantato il Te Deum per ringraziare Dio del dono del Cammino, anche il vescovo ha danzato attorno alla mensa eucaristica dopo aver impartita la benedizione del Signore.