È la risposta che dà Marco Politi, vaticanista di lungo corso, nel suo libro “Francesco tra i lupi. Il segreto di una rivoluzione” (Laterza). Ripercorre lo scorcio storico a cavallo tra i due Pontefici, i segreti del Conclave che ha portato all’elezione di Francesco, le sue “origini”, le resistenze al cambiamento, lo spinoso tema delle finanze e, in modo particolare, “il programma della rivoluzione”.
La pioggia. Gli ombrelli variopinti. Il gabbiano sul comignolo. La fumata bianca. L’attesa. Jorge Mario Bergoglio è il nuovo Papa. Si chiamerà Francesco. Scelta rivoluzionaria, diranno molti commentatori successivamente. Così come rivoluzionarie le prime parole: “Buona sera… Incominciamo questo cammino: Vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi…”. Parole accompagnate dalla richiesta – rivoluzionaria anche questa – della benedizione del popolo per “il suo Vescovo”.
È il 13 marzo 2013. Sono passate da poco le ore 20, quando il mondo intero conosce il nuovo Pontefice, preso “quasi alla fine del mondo”. Sono trascorsi sedici mesi da quella serata storica, ma basta chiudere gli occhi per riannodare il filo di questo tempo e far spazio ai ricordi: la pioggia, gli ombrelli, il gabbiano, la gente in attesa, il volto di Bergoglio… Una messa a fuoco nitida di questo arco temporale, così “breve” a livello cronologico, ma così “lungo” a livello pastorale e decisionale, arriva dal libro “Francesco tra i lupi. Il segreto di una rivoluzione” (Laterza), del giornalista Marco Politi, vaticanista de “la Repubblica” per quasi un ventennio e ora editorialista de “il Fatto Quotidiano”. Il libro ripercorre, con dovizia di particolari e aneddoti, lo scorcio storico a cavallo tra i due Pontefici, i segreti del Conclave che ha portato all’elezione di Francesco, le sue “origini”, le resistenze al cambiamento, lo spinoso tema delle finanze e, in modo particolare, “il programma della rivoluzione” del Papa. Questa rivoluzione, spiega Politi, “ha un nome: ‘Trasformazione missionaria della Chiesa’… Francesco vuole una Chiesa aperta, che va verso il mondo”.
Una Chiesa, in definitiva, che sa farsi prossima e, in questa sua prossimità, indica anche lo stile che deve informare la vita degli evangelizzatori e dei credenti. È questa un’idea di fondo che ha da sempre accompagnato il magistero di Jorge Mario Bergoglio, ora Papa Francesco. In diverse circostanze, infatti, quando era ancora arcivescovo di Buenos Aires, rivolgendosi ai catechisti, sottolineava l’importanza di “accompagnare la vita con cuore di padre e di fratello”, di farsi “prossimo”. E ciò, quasi decentrandosi da sé e facendo propria la “pedagogia di Dio, che sa fare della vicinanza la sua identità, il suo nome, la sua missione”.
Piccoli accenti che rivelano l’immagine – o volto – di Chiesa che Papa Francesco più predilige. Come egli stesso ha dichiarato nell’udienza generale dell’11 settembre 2013: “Per me è una delle immagini più belle della Chiesa: la Chiesa madre!”. E la settimana successiva, il 18 settembre 2013, ha aggiunto: “A me piace tanto questa immagine della Chiesa come madre. Per questo ho voluto ritornarvi, perché questa immagine mi sembra che ci dica non solo come è la Chiesa, ma anche quale volto dovrebbe avere sempre di più la Chiesa, questa nostra madre Chiesa”. Parole confermate nell’intervista a “La Civiltà Cattolica”: “Sogno una Chiesa Madre e Pastora”. E, ancora più recentemente, nell’intervento al convegno ecclesiale della diocesi di Roma, il 16 giugno scorso: “La sfida grande della Chiesa oggi è diventare madre! […] Se la Chiesa non è madre, è brutto dire che diventa una zitella, ma diventa una zitella! È così: non è feconda. […] L’identità della Chiesa è questa: evangelizzare, cioè fare figli […] per questo la Chiesa deve fare qualcosa, deve cambiare, deve convertirsi per diventare madre”.
Il percorso è esplicito: “La Chiesa deve cambiare” non per piaggeria o chissà per quale disegno oscuro. Ma “deve convertirsi per diventare madre”. È questo il punto focale della “rivoluzione” di Papa Francesco, che chiama in causa anche quello che viene definito il “sensus Ecclesiae” che – come egli stesso dice – deve poggiare sui tre pilastri dell’umiltà, della fedeltà e della preghiera e comportare il “sentire e pensare e volere dentro la Chiesa”. Ecco, allora, che ritornano alla mente ed acquistano significato nuovo le prime parole di Bergoglio, appena eletto Pontefice, e la richiesta di benedizione del popolo. Ma non solo… Come non pensare al discorso del 21 giugno 2013 ai rappresentanti pontifici: “I pastori sappiano essere davanti al gregge per indicare la strada, in mezzo al gregge per mantenerlo unito, dietro al gregge per evitare che qualcuno rimanga indietro e perché lo stesso gregge ha, per così dire, il fiuto nel trovare la strada”. Oppure all’omelia della Messa con i nuovi cardinali del 23 febbraio 2014: “Il cardinale non entra in una corte. Evitiamo […] intrighi, chiacchiere, cordate, favoritismi, preferenze”. E così via… Il pensiero va ai richiami sulla corruzione, sui mali odierni, sulla mondanità spirituale “che si nasconde dietro apparenze di religiosità e persino di amore alla Chiesa” (Evangelii Gaudium 93). E va anche alle decisioni storiche come, ad esempio, la costituzione del Consiglio dei cardinali, l’istituzione della Pontificia Commissione per la protezione dei minori, la riforma dello Ior e della Curia Romana.
Tutto si accorda, tutto si tiene. Perché, come dice Francesco, “essere nella Chiesa è essere a casa, con mamma; a casa di mamma. Questa è la grandezza della rivelazione”.