Rieti e l’ottimismo dell’omologazione

«Batti le mani se ti sembra di essere una stanza senza un tetto» è l’invito. Un bell’invito: quello di chi in città tutto sommato se la cava e di conseguenza non ha perso l’ottimismo. Anzi, forse con l’idea che in fondo il sorriso e il buon umore sono altrettanto contagiosi dei musi lunghi e degli sbadigli lo propongono quasi come un giro di boa, un’inversione di rotta.

Non sarà proprio l’ottimismo della volontà contro il pessimismo della ragione, ma in una città in cui – è un luogo comune – non si fa mai nulla, è pur sempre qualcosa. E poi chi l’ha detto che Rieti è una città invisibile. Mica c’è bisogno dei contorti ragionamenti di Italo Calvino per dimostrare di esistere. Per stare al mondo basta essere aggiunti al lungo elenco di città happy.

Se ci sta Terni, Rieti non può mica essere da meno. Anzi: la happiness del Centro d’Italia sembra pure fatta meglio, è più aderente al modello ed è pure più lunga di quasi un minuto. Forse è una extended version, ma non è questo il punto. La cosa importante è di esprimere tutti allo stesso modo la stessa felicità.

Dicono succeda perché il fenomeno è “virale”, che poi è un altro modo per chiamare il vecchio, ma ancora efficiente, concetto dell’omologazione culturale caro a tanta industria dell’intrattenimento. Ma qui il discorso si fa troppo serio. Non c’entra nulla la globalizzazione del gusto. Né è per mancanza di creatività che ci si rifugia nell’infinita ripetizione o nell’imitazione. Alla fine certe cose si mettono su solo per divertimento, così, tanto per farsi insieme qualche risata.

Anche se certi meccanismi di sicuro non sfuggono al più felice di tutti: il geniale produttore che incassa le royalties per il passaggio di centinaia di videoclip realizzati in tutto il mondo. Un marketing personalizzato di città in città, sul quale non ha dovuto investire nemmeno un centesimo.