Rieti e la vita da cassa integrato

Il problema della Ritel non trova fine. Il tavolo al ministero è sempre aperto. La vicenda dal punto di vista tecnico, burocratico ed economico è nota ormai a tutti. Più nascosto, invece, il vissuto dei lavoratori.

Come affrontano la situazione gli operai a riposo forzato dello stabilimento reatino? Che vuol dire attraversare la condizione di cassaintegrato? Ne abbiamo parlato con Vincenzo Tiberti, uno dei lavoratori la cui vita è come sospesa, in attesa di una soluzione.

Qual è stato il suo percorso in Ritel?

Quando entrai nell’azienda, nel ‘91, mi sentivo un privilegiato a lavorare in una realtà internazionale, vicina al picco massimo di produzione. Presi servizio come operaio specializzato: ero manutentore di un innovativo sistema di macchine per il montaggio superficiale, la tecnologia che avviava alla costruzione dei moderni circuiti elettronici. Fu un periodo stimolante: si lavorava per affermare una nuova tecnologia. L’aggiornamento era continuo. Grazie al mio ruolo avevo la conoscenza pressoché totale di tutta la filiera. Ho anche fatto carriera. Poi, negli ultimi periodi, noi tecnici siamo stati accantonati. È arrivata una truppa di lavoratori interinali. Era il tempo del passaggio dalla multinazionale francese alla cordata degli imprenditori attuali.

Quindi che è successo?

Da allora ci siamo trovati in una specie di limbo. Il lavoro non è solo cieca produzione, è anche una condizione personale e sociale: ti dà uno scopo. Ci si sente parte di un sistema vivo. Si contribuisce al benessere di tutti. Nello specchio della famiglia ci si vede come un cardine. Si porta il salario e si riesce a pianificare la vita.

Cosa cambiava l’ingresso degli interinali?

L’atmosfera. Vedere grandi numeri di ragazzi che lavoravano per uno o due mesi cambiava la prospettiva. Si iniziava a ragionare su tempi brevi. Poi la fabbrica è finita e siamo stati messi in cassa integrazione. Forse la nostra condizione è anche peggiore di quella del lavoro in affitto.

Perché?

Psicologicamente ti senti un assistito. Ad un certo punto ti ritrovi al margine, senti di vivere perché qualcuno ti sostiene. Ti viene a mancare l’autonomia. E per come è strutturata la cassa integrazione non è possibile fare nient’altro. Non si può tentare una diversa occupazione. Si finisce bloccati, ci si riduce quasi a delle larve. Le mani che fino a quel punto ti hanno dato da mangiare non ti servono più a nulla. C’è un forte straniamento.

Come vedi oggi la città da questo nuovo punto di vista?

Beh, ad essere sincero, che la situazione fosse critica lo capivo anche prima. Da persona impegnata, che collabora con i sindacati, avevo già il polso della situazione di Rieti. Ma a viverle, le cose sono sempre diverse. Ad un certo punto mi sono sentito come un pilota di astronavi in un parcheggio di biciclette. Oggi la mia professionalità non è più impiegabile sul territorio. È un qualcosa con cui non è facile fare i conti. E fuori dal mio campo la concorrenza è tale da non permettere alcuna riuscita.

C’è l’ipotesi di andare via?

No. Sono fortemente legato al territorio. Forse è un limite, o almeno non riesco a farne una virtù. Ma come si possono lasciare la famiglia, gli amici e tutte le persone con le quali mi sono rapportato per 40 anni? L’idea di cercare altrove forse corrisponde anche una mia incapacità a muovermi. Parlare di radici magari è un troppo, però…

E per i giovani? È meglio andar via o lavorare sulla città per migliorarla?

Non riesco ad immaginare la visuale di un giovane. Quando la vita ti mette sopra qualche mattoncino in più è difficile recuperare la visione di chi ha parecchi anni in meno. Ma forzando un po’ la mano e provando ad immedesimarmi, credo che non me ne andrei lo stesso. Dopo tutto Rieti è ancora un luogo fertile. Una buona idea, qui, potrebbe davvero dare grandi frutti. Qualche segnale c’è anche stato. Forse il problema è che i mercati si saturano in troppo in fretta.

Per quello che hai vissuto, dov’è che l’industria reatina ha trovato il suo limite?

Una pecca è nella scuola. Fino a poco tempo fa non c’era neanche un corso universitario. Uno dei motivi per cui le aziende non sono rimaste è la bassa scolarizzazione superiore e tecnica. Poi ci sono le infrastrutture che mancano. Non si è riusciti o non si è voluto consolidare certi risultati nonostante le opportunità della Cassa del Mezzogiorno. Eppure abbiamo attraversato le varie fasi dello sviluppo industriale. Abbiamo cominciato a cavare lo zucchero dalla barbabietola, poi abbiamo trasformato la cellulosa nel Raion, infine siamo arrivati a manipolare il silicio e le nuove tecnologie. Siamo riusciti a tenere il passo dello sviluppo tecnologico, ma ad un certo punto ci siamo persi.

Come rimediamo?

Forse occorre creare zone di aggregazione culturale per dare una risposta inedita. Difficile che arrivi la ripresa senza il giusto humus intellettuale. Occorre immaginare il nuovo. L’industria ormai non può che cercare di inventare quello che non si è ancora prodotto.