Recuperare l’uomo

Ci sono due italiani, un rumeno e polacco in un laboratorio. No, non è una barzelletta sui vizi e le virtù nazionali degli europei. È la composizione del piccolo gruppo di persone che abbiamo incontrato nel laboratorio di Recuperandia, la struttura della Caritas di Rieti che si preoccupa di dare nuova vita a oggetti usati, ma ancora utili.

«Recuperare le cose, ma anche le persone» si affretta a sottolineare Antonio, che insieme a Paolo, Costantino e Camillo ci accoglie nel piccolo, ma ordinato e ben organizzato locale posto all’interno del cortile dello storico palazzo del seminario.

«Con questi attrezzi – ci dice Paolo – facciamo tante cose. Alcune sono semplici, come l’andare a verificare se qualche “nuovo arrivo” funziona. Il lavoro vero, ovviamente, è nel fare riparazioni e piccoli restauri, come nel caso di certi vecchi mobili. E poi ci sono da fare i ritiri a domicilio e il trasporto a destinazione degli ingombranti…».

Nel laboratorio di Recuperandia c’è di tutto: cucine a gas, forni elettrici, comodini, radio, computer. Viene da pensare che per portare avanti il lavoro ci vogliano competenze piuttosto varie.

Beh, non proprio. Ci vuole soprattutto la buona volontà, tanta attenzione e l’intenzione di fare un buon lavoro. Poi ognuno ci mette del suo, prova il suo talento. Un poco per volta il lavoro cammina, e i recuperi vanno a buon fine. A quel punto gli oggetti sono pronti per l’esposizione nella “galleria” aperta al pubblico, in attesa di un nuovo destinatario.

Dev’essere una bella soddisfazione…

Beh, sì. Sapere che qualcosa che era destinato all’inutilità, alla distruzione, all’abbandono in discarica ha trovato nuova vita e magari ha risolto il problema di qualcuno, non può che fare piacere.

Ma come siete arrivati a Recuperandia?

Ognuno di noi ha una sua storia: chi proviene da anni di carcere, chi da un vissuto fatto di immigrazione, chi di cronica disoccupazione… per tutti è stato decisivo l’incontro con la Caritas, il suo progetto di vicinanza alle persone nella necessità. In particolare dobbiamo ringraziare il direttore, Don Benedetto. Ha dimostrato di saper dare una risposta all’aspettativa e alla necessità di alcune persone di rimettersi in gioco per poter raggiungere validi obiettivi nella vita.

Prima e al di là del suo ruolo pratico, si direbbe che Recuperandia sia una sorta di laboratorio sociale, un luogo in cui la collaborazione e la condivisione tra le persone vengono proposte come soluzione alle difficoltà della vita.

È così. Il problema centrale è il lavoro. Se manca non è solo un problema economico. Più grave è sentire il venir meno del proprio ruolo nel mondo, la perdita del proprio posto nella società. In certe situazioni il terreno si fa scivoloso ed è facile commettere qualche stupidaggine. Poi se ne pagano le conseguenze. Quando accade, riuscire a ricollocarsi è ancora più difficile. In questo senso, per noi, Recuperandia è un vero e proprio margine di vita. Ecco perché si recuperano le persone, e non solo le cose. Sentiamo il dovere di essere grati alla Caritas per tutto quello che fa nel nostro ambiente diocesano e provinciale.

Ma basta il lavoro?

Il lavoro è una buona base di partenza, permette di ritrovare le fondamenta. Ovviamente aiuta di fronte a problemi concreti, ma non va ridotto semplicemente ad una questione economica. Il lavoro è l’unica via praticabile per migliorare se stessi e la propria porzione di mondo. È questo che restituisce alla vita dignità e stabilità, respiro e futuro.

Temendo di rubare troppo tempo agli amici di Recuperandia li lasciamo alle loro faccende, ma senza poter staccare completamente il pensiero da loro. C’è da domandarsi se in questa esperienza piccola e “povera”, ma umanamente tanto ricca, non ci sia più di quello che sembra.

La nostra è la società dello scialo. Producendo e consumando in modo sovrabbondante, tutto perde di valore. Anche il lavoro. Per aumentare l’efficienza della macchina sociale, le vite si sono ridotte ad ingranaggio intercambiabile, talmente a buon mercato da poterle sprecare. Per essere esclusi basta una qualche irregolarità, un qualche difetto, vero o presunto. E a giudicare è sempre il punto di vista dell’Apparato, freddo e calcolatore. Ogni altro sguardo sul mondo è perdente o sempre più marginale.

Nel laboratorio di Recuperandia si intravede una possibilità diversa, un tentativo di rimedio ai problemi del nostro tempo. Una indicazione preziosa perché non insegue certe ossessioni moderne. Le proposte della Caritas non hanno alcun interesse per la “crescita”. Non misurano il benessere con l’aumento delle merci disponibili. Non smaniano per il nuovo. Lo sguardo è rivolto altrove: alla soddisfazione che si trova nel lavoro delle mani, all’idea che attraverso queste si possa costruire il proprio posto nel mondo e ritrovare un ruolo.

Dal recupero delle cose usate emerge un’idea diversa del lavoro, nella quale l’«occuparsi», l’avere cura, risulta essere più soddisfacente dell’«essere occupati». C’è dentro l’idea di un riscatto, di un rovesciamento del senso del lavoro da un ruolo passivo e meccanico ad uno attivo e creativo. C’è l’idea che il tratto umano possa tornare ad essere nuovamente protagonista.

La scommessa sarebbe tutta nel vedere cosa accadrebbe se questa impostazione fosse maggiormente estesa nella società.

Certo, non ci sarebbe da diventar ricchi, anzi. Ma forse la ricchezza è sopravvalutata. Forse si potrebbe riscoprire che è più importante dare spazio alle persone che al denaro e alle cose. Forse.