Cultura e costume

Quel sottile confine tra musica e cinema

Il successo al festival del cinema di Venezia del film sui Led Zeppelin e la lunga tradizione del cinema musicale

La standing ovation tributata al festival del Cinema di Venezia a “Becoming Led Zeppelin” del regista Bernard MacMahon la dice lunga sulla incapacità delle etichette di svelare l’essenza di una musica, di un gruppo, di una poesia, di un racconto, di un film, appunto. Perché quell’applaudire ogni fine pezzo del mitico gruppo britannico da parte di un pubblico avvezzo a pellicole e sceneggiature ben più seriose, significa che non ci sono confini di genere. Anzi, non sono mai esistiti.

“Becoming Led Zeppelin” non è una biopic – un film che narra la vita di un famoso – , ma semplicemente un accurato, documentato, paziente documentario sulla vita di un gruppo che dal 1968 sconvolge il mondo cosiddetto pop (guardiamoci dalle classificazioni!) con una geniale mescidazione di blues, rithm’n blues, rock metallico, folk, progressive, fisicità e ambiguità. Ma da soli i lunghi capelli, i mini corpettini da torero sui torsi (esigui, come da copione allora) nudi, le zampe d’elefante con cui terminavano attillatissimi jeans, gli assoli strazianti e acidi di un chitarrista che veniva da molto lontano con le sue radici british-blues contemporanee ai Beatles, non avrebbero potuto molto: il fatto è che i Led sono riusciti a rappresentare lo spirito del tempo. E d’altronde un’altra memorabile standing ovation, e guarda caso sempre nel tosto ambiente del festival veneziano fu decretata ventitrè anni fa ad un altro capolavoro, stavolta italiano, che fonde musica, teatro, mito (altra prova che le distinzioni secche non hanno ragion d’essere), quell’ “Orfeo 9” di Tito Schipa jr che in tempi insospettabili (primissimi Settanta) aveva ospitato un Renato Zero fantastico Venditore di felicità, e Loredana Bertè, Santino Rocchetti, Tullio De Piscopo, Bill Conti (autore della colonna sonora di Rocky, tanto per dirne una) e molti altri in una avventura che non ha pari né da noi, né all’estero. Divenuto a sua volta film, la storia di Orfeo che rinuncia alla felicità in cambio di qualcosa che possiede già ma di cui non ha vera coscienza, dimostrava il fascino ineludibile di una musica che si fonde con i significati profondi della letteratura e del teatro, oltre che del mito.

Un altro film d’oggi, “Respect”, diretto da Liesl Tommy, che dal 30 settembre sarà nelle nostre sale, speriamo riaperte, anche se con i giusti accorgimenti, narra la tempestosa storia di una leggenda della musica senza confini, quella Aretha Franklin che ha (s)cavalcato mode e stili fondendo il nativo gospel (il padre era un pastore protestante) con il blues e il rock. E inanellando un fiume di successi, a cominciare da quello del titolo, che hanno fatto la storia della musica mondiale.

L’icona della sua interpretazione di “Think” in “The blues brothers”, dove tra l’altro bucano lo schermo altre icone imperiture, Ray Charles, James Brown, John Lee Hooker, rimarrà nella storia delle nozze tra cinema, costume, musica e tanto altro, compresa la condizione femminile e la lotta per il riconoscimento dei diritti della popolazione afroamericana.

E se si tratta di non solo musica, come dimenticare il “Tommy “di Ken Russel che metteva assieme Roger Daltrey, frontman degli Who, Oliver Reed, uno degli attori-cult del tempo (correva l’anno 1975), Ann Margret, un Jack Nicholson cinque anni prima del diabolico ghigno di “Shining”, e però pure Eric Clapton come predicatore, Tina Turner (un’altra voce incredibile, e indelebile) come Regina dell’Acido, Elton John come campione assoluto del flipper. Nessuna meraviglia, per quei tempi, che lo stesso regista, nello stesso anno si dedicasse a un nume tutelare della musica “classica”, Liszt, con il mitico Ringo Starr nei panni di un improbabilissimo Papa. Ma erano tempi in cui la mescolanza e l’ibrido tra sacro e profano andavano di moda, permettendo poi il ritorno, più o meno ortodosso, del sacro stesso in un musical, poi film, “Jesus Christ Superstar” diretto da Norman Jewison, opera cult di Webber e Rice che avrebbe viaggiato per il mondo in una mescolanza, talvolta ingenua, altre volte piuttosto furba, altre ancora appassionata, di sacro, profano, rock, lacrime, scenografia accattivante, fede e politica.

Non ci sono più i confini di una volta, la musica e il cinema ce lo insegnano.

dal Sir