Quanto l’arte racconta la malattia

Una rilettura delle diverse visioni che si sono susseguite nei secoli

Anche questo caldo inverno ha portato con sé l’immancabile malattia influenzale che ha colpito una grossa fetta della popolazione italiana. Se i trattati di medicina sono di origine antichissima e risalgono a Ippocrate e Galeno, il termine “influenza” viene usato solo dal XV secolo, quando si afferma una medicina di tipo astrologico e matematico. Si credeva, cioè, che fossero gli astri ad “influenzare” il corpo umano e a provocarne le malattie. Macrocosmo celeste e microcosmo umano erano così intimamente collegati. Questa concezione appare chiaramente sintetizzata nella celebre miniatura del 1416: “L’uomo anatomico” realizzata dai Fratelli Limbourg nel volume delle Très riches heures du duc de Berry (Chantilly, Musée Condé). Al centro del microcosmo appaiono due personaggi, sono l’uomo e la donna, che rappresentano i due principi psichici fondamentali, e sul loro corpo scorrono i segni zodiacali. I simboli degli astri sono posizionati sul corpo umano a seconda della loro zona d’influenza ovvero dove, seguendo i principi della medicina quattrocentesca, si creano le corrispondenze celesti tra gli umori, le malattie e i medicamenti. Infine, a suggellare il legame con la zona astrale, attorno alle figure viene raffigurata la ruota zodiacale che serviva a scandisce i ritmi dell’esistenza umana.
Questo tipo di visione viene pian piano abbandonata nei secoli grazie ai primi progressi in campo medico, ma l’idea di una sorta di influenza celeste delle malattie sull’uomo continua a persistere. E così in piena età della Controriforma, nonostante le scoperte scientifiche, le malattie endemiche vengono avvertite come una fase di “espiazione dei peccati”. Questo particolare modo di percepire la malattia si traduce nell’immagine del “Bacchino malato” (Roma, Galleria Borghese) realizzato da Michelangelo Merisi da Caravaggio nel 1593. Si tratta in realtà di un autoritratto dell’artista, dipinto a seguito della sua degenza presso l’Ospedale della Consolazione.
Il quadro vibra di realismo, Caravaggio-Bacchino ha il volto provato dalla malattia evidenziato dall’incarnato livido e dalle labbra violacee. Più complesso è il significato escatologico dell’opera: la postura, con una gamba più alta rispetto all’altra, come in procinto di alzarsi, rimanda all’uscita dal sepolcro, sottolineato dal tavolo di marmo posto davanti, quasi il coperchio d’una tomba. Il grappolo di uva nera poggiato dinanzi allude alla morte, mentre l’altro grappolo giallo che Bacchino stringe tra la mani è simbolo della vita, richiamata ancora dal sempreverde che gli cinge la testa.
Caravaggio rivede la sua degenza ospedaliera come una sorta di passione e guarda ancor di più la ritrovata salute, grazie alle cure ottenute, come una rinascita. Arriviamo così ai tempi moderni, le ricerche scientifiche e l’azione salvifica delle scoperte farmacologiche prendono sempre più piede e determinano una nuova fiducia verso la medicina. Ma tutto questo non cancella il legame col mondo ultraterreno e così ad ogni buona medicina si accompagna quasi sempre la speranza cristiana.
Il concetto viene ben espresso da un quadro, intitolato: “Scienza e Carità” (Barcellona, Museu Picasso) e realizzato da un appena sedicenne Pablo Picasso: all’interno di una stanza privata, si trova una donna distesa sul proprio letto, coperta da grosse lenzuola bianche, col volto emaciato e l’espressione contrita dalla malattia, stremata nelle forze. Accanto si svolgono due azioni in apparante antitesi ma in intimo collegamento tra loro: da un lato, si trova un medico mentre controlla i battiti del polso, è la Scienza; al lato opposto, è ritratta una suora che ha in braccio il bambino della donna e porge alla degente una tazza con una bevanda, è la Carità.