Pietro Pileri e il laboratorio de «Il Messaggero»

Giornalisticamente, Pietro Pileri era uno che andava al sodo, stile asciutto e senza fronzoli. Per certi versi è stato maestro di un’intera generazione di cronisti. Amava circondarsi di giovani. Il primo fu Giuseppe Rosati, poi venimmo io e Sergio Cacciagrano, che da sempre curò lo sport. Più tardi, tanti altri. E tra questi, Tonino Cipolloni, che scriveva dal Terminillo e Zeno Fioritoni, approdato appena giovanotto in redazione, che aveva uno spirito e una grinta molte volte indispensabile per compiere bene questa difficile professione del giornalista, tanto che fu un innovatore, soprattutto e poi, con la televisione.

Pileri, anche lui, non era di Rieti. Come tanti che sono venuti da fuori ed hanno contribuito a far migliore questa città, così com’è adesso, oggi. Veniva da Roma, Pierpil, abbreviazione e aggiustamento del suo nome e cognome con cui spesso amava firmare le analisi politiche. Giunto nell’umbilicus sul finire degli anni ’30, aveva cominciato a scrivere per il Littoriale, che era Il Corriere dello Sport di oggi. Amava il tennis, lo sci ed il calcio. Sul terreno del vecchio campo Fassini giocava all’ala. Lo chiamavano Scopelli, che era un calciatore famoso della Roma di allora, perché gli somigliava. Pileri era scanzonato ed allegro. Nei momenti di tensione aveva una battuta dissacrante per ridicolizzare il potere. Sempre pronunciata con quel suo mai dimenticato accento romanesco, limato in Trastevere, avendo frequentato la parrocchia in cui andava anche Aldo Fabrizi a recitare insieme al fratello maggiore di Pietro. Nel dopoguerra era passato a «Il Messaggero» e alla RAI e il 24 dicembre del 1954 aveva firmato la prima pagina locale del giornale.

In viaggio di nozze era andato a Firenze. Il 21 aprile di quell’anno s’imbatté in una pattuglia della milizia mentre era per strada, sottobraccio alla bella e giovane moglie Ada. Era l’anniversario della fondazione di Roma. Gli chiesero: «Camerata, hai dimenticato di mettere la tua camicia nera in valigia. Come mai?» Dovette comprarsene una nuova in un negozio vicino per evitare di finire in questura. A metà degli anni ’60, il prefetto Tirrito lo aveva intruppato in un’infornata di personalità che aveva ricevuto il titolo di cavaliere della Repubblica. Fu recalcitrante non poco e non voleva accettare. Per questo, quando in redazione volevamo scherzare, noi lo chiamavamo il Cavaliere. Ogni tanto ci faceva una predica Pierpil, perché, diceva: «Non possiamo stare con il potere. Quelli del potere dobbiamo pressarli, stanarli, metterli quotidianamente a dura prova. Non c’è notizia che non vada controllata e verificata. Anche quando viene da fonte ufficiale. Noi raccontiamo i fatti, tutti i fatti, che la gente ha diritto di conoscere».

Il suo stile di fare il giornale era semplice, ma professionale. Odiava le perifrasi, le parole difficili, le provocatorie cattiverie che il lettore più sprovveduto non avrebbe potuto capire. I suoi capocronaca erano un punto fermo nella vita amministrativa locale. Per alcuni decenni fu la coscienza critica della città. Mario Missiroli, uno dei grandi direttori de «Il Messaggero», lo teneva in considerazione. Venne in visita a Rieti, ci riunì e innanzi a noi gli rilasciò un attestato di grande stima.

Il dramma dell’ultima guerra lo riassunse in un libro dal titolo Sabina anno zero, riordinando una serie di servizi frutto di un’inchiesta che il caporedattore delle province Lorenzo Focolari gli aveva richiesto e pubblicato. Il libro che raccontava le tragiche vicende dell’occupazione nazista, fu presentato a Santa Chiara, nell’Oratorio delle Suore Clarisse. Per quella serata venne Paolo Emilio Taviani, che era il presidente dei Partigiani cattolici e già ministro della difesa e degli interni.

Pileri é stato per i giovani cronisti del suo tempo, padre e fratello maggiore. Dal punto di vista laico ci ha insegnato a leggere la storia e a conoscere gli uomini attraverso la cronaca. Era lucido, disposto naturalmente alla critica e osservatore disinteressato di quel microcosmo cittadino di cui conosceva ogni più riposto segreto.

Quando la sera a Roma, in tipografia, le pagine della cronaca di Rieti erano finalmente chiuse ed era già tardi, Pietro Pileri celebrava il quotidiano rito di impostazione del giornale per il dì appresso. Era il momento in cui prendeva corpo il Messaggero dell’indomani. Si sceglievano gli argomenti, il capocronaca, le inchieste, la spalla, le foto.

A quell’epoca Pierpil era l’unico che avesse solide cognizioni di giornalismo. Rosati ed io, malgrado fossimo bruciati da una passione che ci consumava dentro, di mestiere ne avevamo da apprendere moltissimo. Fin dal primo giorno di quella vigilia di Natale del ’54, quando uscì la prima pagina del Messaggero di Rieti, la cronaca non fu asettica. Pileri aveva idee socialdemocratiche, mai rinnegate. Combatté l’ultima guerra sul fronte greco dove perse molto del suo udito. Condivise la scissione di Palazzo Barberini, ma rimase sempre critico per gli sviluppi che ebbe. Era buono e generoso. Spesso pieno di attenzioni. Fatta una scelta, non aveva ripensamenti. Ognuno di noi veniva da ambienti, esperienze ed aveva culture diverse. Letti i propri libri, avuti i propri maestri ed i propri idoli.

Giuseppe Rosati, il suo vice, è stato sempre contro il potere, fin da allora. Restio ad accordare applausi a chicchessia, faceva rispettare la regola che la notizia, quando era tale, andava pubblicata, anche se poteva far male ai nostri convincimenti personali. Quelli di Peppino erano i migliori menabò, che Pietro gli lasciava volentieri stilare, le migliori innovazioni, le grandi fotografie, gli smargini, a me invece restavano i titoli d’effetto, ricchi di battute, che mi venivano di botto prima di scrivere gli articoli. Con Cacciagrano inventammo le trasmissioni in diretta delle cronache delle partite di basket, che Pileri condivise e sostenne. La sera della conquista della serie A facemmo insieme con Sergio quei servizi dal Palazzo dello sport di Pesaro. Sotto le finestre del Messaggero, la piazza e la via Cintia erano piene di più di seimila persone. Poi Cacciagrano fu il primo dei cronisti a scrivere un libro. Si intitolava Rieti nel canestro. A veder tutta quella gente sotto le finestre della redazione, Pierpil si fregava le mani, pensando alle vendite dell’indomani.

Agli inizi Rosati aveva una sensibilità ed una delicatezza nell’affrontare i problemi della vita, attraverso la cronaca, che lasciava stupefatti e che poi il tempo, come era logico che accadesse, modificò dandogli quella scorza di durezza che un cronista deve per forza avere. Fin dai primissimi anni scriveva di cose amministrative in modo fin troppo pulito e preciso, frutto dell’insegnamento del Cavaliere e di una diuturna fatica nella ricerca dei fatti, nonché dello studio e degli approfondimenti che le difficili questioni imponevano quanto a documentazione e ad impegno culturale. Il suo regno era il Palazzo di Città e la segreteria particolare dell’onorevole Matteucci, la cui regina era la signorina Maria Scopigno, con la quale intratteneva un’amicizia profonda, sostenuta dall’intelligenza di entrambi, dalla loro emotività e dalla reciproca stima per i rispettivi ruoli e punti di vista. Ma attraverso la segreteria del sindaco, filtravano le notizie, si apprendevano i programmi e Maria discorreva con Rosati delle posizioni dei gruppi politici, delle iniziative e delle realizzazioni pubbliche.

Giuseppe Rosati era il preferito di Pietro e più tardi, quando il Cavaliere lasciò la guida della redazione, Peppino ne ereditò la tolda, dopo che vi erano transitati colleghi venuti da fuori.

Non c’era possibilità alcuna di attenuare in qualche modo l’aspro confronto che c’era con Il Tempo, una guerra che da Roma si trasferiva nella periferia e a Rieti ci portò ad incrociare le armi con i valorosi colleghi Giancarlo Calzolari, Sergio Carrozzoni, Ivano Festuccia e Flavio Fosso con i quali la lotta era all’ultima copia. Ma mai venne meno l’amicizia. Da una parte e dall’altra i buchi non si contavano ed ognuno si giocava così la propria reputazione di valido cronista.

Pietro godeva di grande popolarità e di amicizie, come tutti i cronisti che vengono dallo sport, e nell’ambito cittadino era circondato da stima e considerazione. «Il Messaggero» del cavalier Pileri faceva opinione. Non c’era un tema sul quale la posizione del giornale non fosse nota e quindi sostenuta con inchieste e servizi. Rosati seguiva il consiglio comunale ed io quello provinciale e lì, nelle lunghe sedute notturne, acquisimmo la conoscenza di tutto ciò che bolliva nelle due pentole di Palazzo di Città e di Palazzo d’Oltre Velino ed apprendemmo pregi e difetti di quei cuochi che sfornavano le nostre pietanze in Comune ed in Provincia.

Sui banchi dei consigli sedevano allora i senatori Marzio Bernardinetti, Luigi Anderlini e Giorgio Fenoaltea, gli onorevoli Malfatti, Coccia e Alarico Carrassi, genovese con il dono dell’intelligenza, della furbizia e di far innamorare le donne. E poi Rolando Ciancarelli, Alberto Alunni, Alfredo Chiaretti, Ugo Dionisi ed il liberale Pietro Salustri-Galli, grande produttore di olio e cantiniere di quel vino delizioso che è il Pomonte di Fara, ed un rivoluzionario dello stampo di Ninì Tanteri, che passò alle cronache come il Lupo rosso della Sabina, per il suo stalinismo, ma anche per la sua integerrima coscienza morale.

La mia formazione era stata diversa da quella di Pileri e di Rosati. L’Azione cattolica e don Lino il mio parroco l’avevano incanalata entro gli argini del solidarismo cristiano e del sogno dossettiano. Insieme a tutte le esperienze della guerra, che ognuno di noi tre si portava appresso, quello era il retroterra culturale da cui presero le mosse le battaglie che il Messaggero ingaggiò nella sua ormai lunga storia: quella per il primo acquedotto, per il ritorno di Fonte Cottorella ai reatini, per il nuovo piano regolatore, per lo sviluppo del Terminillo, per l’industrializzazione e la realizzazione di un moderno sistema viario. Pur riportando le posizioni e le idee di ognuno dei partiti e di tutti i sindacati, il giornale aveva la sua linea, che comunicò alla gente giorno dopo giorno, fino a creare una coscienza civica sui temi trattati che poi, alla fine, era di chi ogni mattina ci acquistava in edicola e che si ritrovava in quelle battaglie e su quelle posizioni.

Forse qualcuno potrà obiettare che eravamo troppo dentro ai problemi, quello del nucleo industriale, ad esempio. La verità è che ognuno di noi nutriva la passione, non facilmente domabile, del riscatto dell’umbilicus e della Sabina.

Dentro quel fiume che trascinava a stento e a fatica il processo di ammodernamento di tutte le strutture, non potevamo non starci se non con quella civile adesione. Quel patto che, benché non scritto, c’era ed esisteva tra Pileri, Rosati, Cacciagrano e me, veniva tutte le sere rinnovato, pur nella discussione, nei contrasti, nella divergenza fra le tesi che ciascuno di noi sosteneva.

Tesi diverse che alla fine, però, riuscivamo sempre a comporre in un compromesso dignitoso, in virtù della solida amicizia che ci univa e nell’interesse della città e del giornale. In redazione, al Messaggero, partecipavamo con civile passione all’entusiasmante avventura del processo d’industrializzazione del Reatino, che si annunciava tanto vasto e rapido da rivoluzionare economia e costumi.

Bisogna affermare che molte volte ci ritrovammo sulla linea politica che portava avanti l’on. Franco Maria Malfatti. Anzi, sulle direttrici di fondo di quella, poche volte il Messaggero dissentì. Non fece mancare il sostegno dell’opinione pubblica che ci leggeva, all’azione ed all’opera di De Juliis, il sindaco podestà, di Leonardi, il fattivo presidente del nucleo, di Bernardinetti, il signore di montagna che portò a termine la costruzione del nuovo ospedale provinciale di Campoloniano, di Cipriani, presidente della giunta regionale del Lazio, di Aloisi, un signor sindaco faticatore come nessun altro, che mandò a buon fine, nel ’72, il nuovo piano regolatore, come prima era avvenuto per l’onorevole Lionello Matteucci.

La notte in cui Lionello morì, era quella di un primo maggio, colto da un infarto durante un comizio a Passo Corese, Pileri e Rosati furono i primi ad accorrere al pronto soccorso dove Osvaldo, l’autista del deputato-sindaco, l’aveva trasportato nel tentativo di salvarlo. E fu così che loro diedero la notizia all’Ansa!

Quelle direttrici di fondo di una città che allora cresceva, Pietro Pileri le criticò quando abbisognava, ma le fece proprie e le ingigantì nei momenti in cui gli interessi della Provincia erano preminenti e bisognava difenderli.

Insomma, io che lo ebbi maestro per vent’anni, posso dire che fu lui ad aprire una strada qui a Rieti decisiva per lo sviluppo della vita democratica, che fu fino all’ultimo della sua lunga vita, un cittadino operoso, rispettoso delle persone e delle leggi ed un giornalista che non abbassò mai le armi.

Il che mi fa dire che bene hanno fatto il sindaco Petrangeli e la giunta comunale a ripagare questo suo lavoro con l’intitolargli una strada e bene ancor più hanno fatto gli organizzatori di questa manifestazione, tutti colleghi giornalisti, chiedendo che questa cerimonia si svolgesse innanzi ad un gruppo di giovani studenti del liceo cittadino, i quali hanno intenzione di prepararsi a svolgere il lavoro del giornalista, avendo quale buon esempio lui, il Cavaliere, e Indro Montanelli, che sedette sui banchi del Varrone ove adesso questi ragazzi si preparano alla vita, sperando di poterne seguirne gli esempi.