Oggetti che non butteremmo mai (quasi avessero anima propria)

Se c’è una cosa che accomuna molti di noi, è la sensazione che le cose siano dotate di anima propria e perfettamente in grado di capire emozioni e trattenere ricordi. Ogni volta che dobbiamo sostituire, per obsolescenza o rottura irreparabile, un oggetto che ci ha accompagnato per molto tempo, la fitta di rimorso si unisce a fiotti di memoria.

La spazzola dalla superficie sbiadita che ormai ha perso parte dei denti è la stessa con cui abbiamo affrontato un primo appuntamento importante, con cui abbiamo spazzolato via la rabbia di una delusione, che abbiamo usato sui capelli fini di una madre anziana o di una figlia bambina. Basta afferrarne l’impugnatura e il contatto col palmo della mano dà il via a gesti automatici che, nella nostra immagine riflessa, portano con sé tanti altri anni e altre persone.

La giacca dai gomiti sgualciti e i bordi un po’ sdruciti è quella che continua a confermarsi la prima scelta quando ci si vuole sentire comodi ed eleganti, quando serve una sicurezza pari a quella di una coperta di Linus, quella che si pensa dia la nostra immagine più autentica, quella che di quella stoffa lì non la fanno più, quella che quando la si indossa non tradisce mai.

Le scarpe risuolate all’infinito perché ci si cammina così bene che non ce ne sono altre, un modello immarcescibile che ci porta in giro per il mondo con passo sicuro e falcata decisa, la pelle consumata ma ancora buona, la soletta perfettamente integrata con la nostra pianta del piede, la tomaia che avvolge morbidamente tutto il giorno.

La caffettiera che ha visto i primi caffè da soli nella prima casa lontani dalla famiglia, da studenti o da neosposi, quella con il fondo annerito e il manico deformato dal troppo caldo di troppi fornelli, quella dal design imperituro e anche ordinario nella sua abitudinarietà.

Tutti oggetti da cui è difficile separarsi, perché in qualche modo ci rappresentano, raccontano una parte di noi e ci pare compongano la nostra identità davanti agli altri. Così, pur potendoli sostituire, come si fa a buttarli? Sarebbe come gettare via anche la vita che hanno attraversato insieme a noi e con essa una parte dei nostri ricordi.

È curioso invece constatare come questa predisposizione d’animo non si applichi ad altre “cose” di uso quotidiano che usiamo infinitamente di più e con cui abbiamo un rapporto molto più stretto, perché davvero e non figurativamente racchiudono parti della nostra memoria: i telefonini e i pc.

Lì non c’è affetto che tenga: appena esce il modello nuovo o l’attrezzo non risponde più ad esigenze di velocità o di utilizzo non si esita un secondo a cambiarlo. Bastano due cavetti e il contenuto di un dispositivo passa al nuovo acquisto, che è immediatamente operativo senza soluzione di continuità. Se poi pensiamo al cambio di tv – giacché lo schermo non è mai abbastanza grande e la definizione mai sufficiente – non c’è nemmeno bisogno di un trasloco di dati: plug & play, attacca e gioca.

La tecnologia, per quanto onnipresente e in un certo senso quasi dalle facoltà illimitate, è percepita comunque come un mezzo: utile, indispensabile a volte, ma solo uno strumento. Per questo se ci si presenta l’opportunità di sostituire l’oggetto che ci permette di usufruire di questa tecnologia con un altro che ci piace di più, il rimorso è sentimento inesistente.

Il consumismo spinge a trattare i desideri come bisogni e a rimpiazzare rapidamente quel che non ci soddisfa più con qualcosa di nuovo, di più alla moda, di più simile a quanto viene proposto come conforme al gusto della maggioranza. Una continua surrogazione per prodotti destinati a non avere memoria, a non rappresentare nulla, a non racchiudere alcuna forza simbolica, a non passare di generazione in generazione. Pensiamo alla giacca di un padre, alla caffettiera della nonna: non sono privi di vita gli oggetti con cui realmente viviamo. E l’anima non si scarta.