Obama ha battuto la recessione, ma sul fronte estero…

Michael Desch, presidente del Dipartimento di Scienze politiche all’Università cattolica di Notre Dame, in Indiana: “Rispetto all’autunno del 2008 la disoccupazione si è dimezzata. La chiave di questo successo è stata il salvataggio dell’industria automobilistica e del sistema finanziario. È stato un rischio, ma ha funzionato”. Il successo della riforma sanitaria e l’incognita di quella sull’immigrazione.

All’indomani della sconfitta del partito democratico alle elezioni di metà mandato, è evidente l’indebolimento del presidente Barack Obama sul fronte interno. Ma il recente accordo con la Cina in fatto di ambiente, e gli esiti – ancora da valutare – del G20, lasciano trasparire possibili mosse audaci di Obama in politica estera. Per una valutazione su quali potranno essere le conseguenze delle elezioni di Midterm sulla politica statunitense nello scenario mondiale dei prossimi due anni, il Sir ha interpellato Michael Desch, professore e presidente del Dipartimento di Scienze politiche all’Università cattolica di Notre Dame, in Indiana.

Professor Desch, appena una settimana dopo la disfatta elettorale, Obama ha siglato uno storico accordo con la Cina per ridurre le emissioni di gas serra. Sarà questo il primo di una serie d’interventi in politica estera che ci stupiranno?

“È abbastanza consueto che se un presidente si trova con Camera e Senato in mano al partito d’opposizione, non potendo fare molto in chiave interna, si concentri sulla politica internazionale. Non credo, però, che lo scacchiere globale si presenti particolarmente propizio per Obama. Quello iraniano è un dossier ostico, la crisi ucraina è opaca e ingessata, un accordo tra Israele e palestinesi non è in vista e invece sembra profilarsi, purtroppo, una terza intifada. Il quadro non potrebbe essere più incerto”.

Uno dei grandi temi è il nucleare iraniano. Ritiene che alla luce della pressione dei repubblicani Obama sarà costretto a raggiungere il migliore degli accordi perché un patto al ribasso non sarebbe tollerato dal Grand Old Party?

“Francamente non credo che questo influirà. Entrambi i partiti hanno un ottimo rapporto con Israele, il player chiave per il trattato. E non vedo come l’amministrazione democratica avrebbe potuto firmare un accordo ‘debole’ se i repubblicani non avessero conquistato il Senato. Piuttosto, l’elemento che potrebbe avere un certo peso nei negoziati è la lotta all’Isis. Paradossalmente, sia gli Stati Uniti sia l’Iran al momento hanno l’interesse comune di ridimensionare e sconfiggere questi terroristi”.

Guardando a tutto l’arco della presidenza, qual è il suo giudizio sulla politica estera di Obama?
“Direi che molte aspettative sono state frustrate. All’ambizioso discorso pronunciato al Cairo nel gennaio 2009 sono seguite le primavere arabe, ma purtroppo gli entusiasmi iniziali si sono dissipati rapidamente e hanno lasciato il campo a Stati zoppicanti con assetti politici traballanti”.

Più in generale, quale ritiene sia l’eredità politica di Obama fino a questo momento?
“Direi, senz’ombra di dubbio, che il maggiore risultato di Obama è stata la riforma del sistema sanitario: il numero di americani senza alcuna assicurazione medica è sceso del 25 per cento. Anche se molti si aspettavano di più e il sistema è ancora in rodaggio non si può non considerare questo come uno straordinario risultato”.

Come valuta invece l’operato del presidente in materia economica?

“Ritengo che tra qualche decennio sui libri di storia si studierà come questa ripresa sia stata possibile. Risollevarsi dalla peggiore recessione dopo la grande depressione non è cosa da poco. Rispetto all’autunno del 2008 la disoccupazione si è dimezzata. La chiave di questo successo è stata il salvataggio dell’industria automobilistica e del sistema finanziario. È stato un rischio, ma ha funzionato”.

Durante il secondo mandato, la grande riforma doveva essere invece quella dell’immigrazione. Per ora resta impantanata alla Camera…
“Il presidente ha annunciato di voler procedere comunque su questo terreno, in un primo tempo unilateralmente con un ‘executive order’ (un decreto presidenziale, nda) per far pressione sul Congresso affinché approvi una riforma. Non so se questa sarà una strategia vincente. Si tratta di un tema molto delicato, riguarda 11 milioni di persone senza documenti. Credo che per arrivare a una soluzione duratura sia necessario un grande accordo tra le forze politiche, ma la crescente polarizzazione alimentata anche dalla presenza nelle file dei repubblicani dei duri e puri del Tea Party lo renderà molto difficile”.