Chiesa di Rieti

Nell’esperienza della montagna «la rivelazione della bellezza e dell’amore di Dio»

Presiedendo la Messa a Terminillo in occasione della memoria liturgica della Trasfigurazione di Gesù, il vescovo Domenico ha parlato della montagna come esperienza spirituale

Per chi la sua vita di comunione fraterna e il servizio alla Chiesa lo vive sul monte, quale migliore ispirazione del particolare mistero che gli evangelisti collocano, appunto, sul santo monte della Palestina identificato dalla tradizione con il Tabor? Al mistero della Trasfigurazione, all’esperienza vissuta da Pietro, Giacomo e Giovanni che contemplano il volto di Gesù trasformato e raggiante di luce, anticipazione della gloria pasquale, è infatti intitolata la comunità avviata da padre Mariano Pappalardo sul Terminillo. Monaci di parrocchia, in quel templum pacis di cui la Fraternità monastica della Trasfigurazione ha ereditato la custodia dai Frati Minori Conventuali, mettendo così insieme l’appartenenza diocesana, la regola benedettina e l’ideale francescano che il tempio votivo intitolato al Patrono d’Italia richiama dominando la valle reatina impregnata del carisma del Poverello d’Assisi.

Sul monte, il giorno in cui la Chiesa d’Oriente e d’Occidente, in piena estate, ha collocato la memoria liturgica della Trasfigurazione di Gesù, è salito anche il vescovo Domenico, per condividere la festa con i tre monaci-sacerdoti – Mariano, Luca e Pietro – e i fedeli presenti nel tempio terminillese.

La riflessione, monsignor Pompili, l’ha orientata proprio sul valore spirituale che la simbologia del “monte” richiama. A partire dalla testimonianza che l’apostolo Simon Pietro, insieme ai due figli di Zebedeo presente all’eccezionale esperienza vissuta con grande stupore sul Tabor, dà nella sua seconda lettera, nel brano proclamato tra le letture della Messa, dichiarando di essere appunto stato, lui e gli altri due apostoli, “testimoni oculari della sua grandezza”. E per cogliere «la bellezza e la grandezza» della trasfigurazione il vescovo ha invitato a soffermarsi sui momenti «che descrivono questo evento raccontato da tutti e tre i sinottici: quando i discepoli salgono sul monte, quando vivono sul monte e quando discendono dal monte».

La salita, innanzitutto. Immaginabile, ha detto monsignore, che «dopo i primi passi i discepoli abbiano avvertito la stanchezza del vivere, quella pesantezza sulle gambe, che è però immagine di un’altra pesantezza»: il rischio esistenziale «di quella mediocrità che è l’esatto contrario della bellezza». Un rischio, quello «di starsene perennemente “in basso”, senza provare a “scalare la montagna”» ben presente oggi. Una mediocrità che si manifesta in tante forme, «come il calcolo egoistico che prende il posto della generosità; l’abitudine ripetitiva che si sostituisce alla fedeltà che dev’essere creativa, altrimenti si si riduce a un trascinarsi; l’accidia svogliata che moltiplica pensieri vuote e parole al vento». E già: oggi, ha rilevato il vescovo «la mediocrità è fatta spesso di parole vuote e pensieri astratti, che non di fatti concreti» come ben dimostrano le sterili «diatribe televisive di questi giorni riguardo il virus, in cui siamo rimasti straniti da tanto concentrato di insensatezza. Un rischio che nasce appunto dalla mediocrità, cioè dall’incapacità di affrontare la salita e volersene stare “in basso”. Mentre i discepoli, nel salire verso la cima della montagna, «hanno sentito sì la stanchezza sulle gambe, ma anche l’emozione di sollevarsi rispetto alla banalità “di tante parole senza idee e di tante idee senza cose”», ha chiosato Pompili citando i versi di un suo vecchio professore, il teologo gesuita Mario Rosin che si riferiva alla mediocrità anche all’interno del mondo ecclesiale. Salendo in montagna, infatti, «le parole si diradano, quelle poche parole diventano idee, e le idee rappresentano delle cose».

C’è poi il momento che i discepoli vivono stando sul monte: «un tempo breve ma intenso, in cui accade l’imprevedibile, come la tras-formazione di Gesù, che in quel momento sul monte percepiscono in modo differente». Un’esperienza straordinaria che, stando alla narrazione evangelica, «nasce da un’ombra prodotta da una nube da cui fuoriesce» la voce del Padre che invita ad ascoltare il Figlio suo prediletto. Ed è colui, ha sottolineato il vescovo, che di lì a poco, a Gerusalemme, «vedranno accusato, violentato e ucciso». Costui loro devono ascoltare: Dio vuol dire “comprendetelo bene”. Quest’uomo trasfigurato «è la rivelazione della bellezza e dell’amore di Dio. Non c’è forma più alta e più bella dell’amore, e in questo caso l’amore crocifisso. E la Chiesa diventa attraente solo quando in essa si fa questa esperienza della bellezza che nasce dall’amore con Cristo che scalda il cuore e illumina la mente».

Ultimo momento, il discendere dei discepoli dal monte, «perché la bellezza non è un possesso ma è un dono che va condiviso, perciò non può essere trattenuto». Questo l’invito rivolto da Gesù ai tre che avrebbero voluto piantare tre capanne e rimanersene beati lassù a godere di quella pace divina: scendere, tornare alla vita in mezzo agli altri e non starsene a parte, «per far sì che questa esperienza possa essere in qualche modo partecipata, per far sì che quello che noi abbiamo sperimentato possa essere anche condiviso dagli altri». Proprio ciò «rende la vita del credente bella e attraente».