Nelle nostre periferie italiani vecchi e poveri con giovani immigrati

Il sociologo Francesco Alberoni offre una lettura originale del disagio: “Come si possono integrare un giovane musulmano di diciotto anni con una vecchia signora di ottant’anni? Come si possono capire?”. Scomparse le sezioni di partito, c’è una prateria per gli “antagonisti” che alimentano gli scontri. La debolezza dei Comuni fa il resto. La Chiesa regge con le sue opere caritative, ma non basta.

Le periferie sono sempre più l’emblema del disagio urbano, in Italia, come negli altri Paesi europei. I disordini a Tor Sapienza a Roma la dicono lunga su come il malessere possa fare da detonatore ed esplodere in rivolta. Ne parliamo con il sociologoFrancesco Alberoni, esperto di conflitti sociali.

Professore, perché si vive così male nelle periferie?
“Ho l’impressione che ci sono due fattori nuovi rispetto a dieci anni fa. Il primo è la recessione economica, con il conseguente impoverimento di tutte le classi sociali, a parte pochi privilegiati, e soprattutto l’impoverimento dei più poveri. Nelle periferie hanno sempre abitato i poveri, anche perché erano loro ad usufruire dell’ausilio dello Stato attraverso le case popolari. L’attuale impoverimento ha portato a una reale difficoltà per alcune fasce della popolazione. Il secondo fattore è la mutata composizione della popolazione povera in Italia perché si sono aggiunte delle frazioni non indifferenti di immigrati poveri. Anche costoro, quando restano in Italia e non si trasferiscono in altri Paesi europei, vanno a vivere nelle periferie. In più c’è un certo afflusso di molti rom, che si affollano attorno alle città e vivono di espedienti”.

Il problema è, dunque, nella forte deprivazione che si vive nelle periferie?
“Sì, si arriva a una guerra tra poveri: da un lato, gli italiani impoveriti, invecchiati e anche deboli, che vivono nelle case popolari, spesso anche fatiscenti; dall’altro, popolazioni immigrate e giovani. Ho sentito anche casi di stranieri che hanno occupato le case degli italiani. Nella periferia si sta vivendo, quindi, una sofferenza prevedibile. Occorrerebbero delle enormi risorse da parte dello Stato, ma non ci sono. In questo senso, la Chiesa, attraverso la Caritas e le mense, fa il possibile per venire incontro alle esigenze della povera gente, ma resta il problema abitativo, che non è facile da risolvere”.

Il malessere spesso si traduce anche in violenza…

“La povertà e la mancanza di lavoro incattiviscono. A ciò si aggiunge un altro fatto: abbiamo in Italia dei centri organizzati di mobilitazione sociale; qualunque cosa succede c’è la gente dei centri sociali che va a cercare lo scontro. Sono persone che vivono in modo antagonistico rispetto alla società e che cercano solo un’occasione di disagio per attaccare il sistema. Quindi, anche se i locali e i giovani immigrati non si scontrerebbero, ma si limiterebbero a qualche grido e a qualche accusa reciproca, quando arrivano questi altri si arriva allo scontro fisico”.

Crede che ci sia qualche elemento positivo nella periferia su cui far leva per migliorare la vivibilità?

“Le periferie sono terra di decomposizione della società. Un tempo, invece, c’erano la chiesa, la sezione del partito socialista e quella del partito comunista. Erano le tre forze che in qualche modo sostenevano la vivibilità di questi luoghi. Ora mi sembra che questi elementi non siano più così forti, anche se resta forte l’impegno della chiesa accanto agli ultimi. Il centro sociale, che è antagonista allo Stato e a tutto, ha sostituito la chiesa e le sezioni dei partiti. Prima il villaggio sorgeva intorno alla chiesa, mentre le periferie attuali sono nate in modo anonimo, con casermoni. Il partito comunista e il socialista non ci sono più. Questo ruolo di collante dovrebbe essere ricoperto dal comune, che mi sembra, però, evanescente. E, poi, non ci sono giovani”.

In che modo pesa il fatto che ci siano pochi giovani nelle periferie?
“Le periferie sono piene di vecchi, gli unici giovani sono gli immigrati. Quindi, vengono messi giovani musulmani in mezzo a vecchi malandati. Non è un connubio fecondo: come si possono integrare un giovane musulmano di diciotto anni con una vecchia signora di ottant’anni? Come si possono capire? Il cristianesimo e l’islam possono convivere, lo hanno fatto in molte zone, attraverso una paziente costruzione di una società civile ricca, ma non sulla miseria. Qui, invece, l’immigrato che arriva ha bisogno di tutto, viene sperando di trovare un Paese ricco, ma se le sue aspettative sono deluse va in crisi. Nelle periferie si è sempre cercato di costruire delle zone di ricomposizione, ma per renderle vive c’è bisogno di gente giovane. I vecchi poveri sono il dramma della nostra società. E, purtroppo, in Italia non ci sono più giovani”.

Queste situazioni di disagio si vivono soprattutto nelle periferie delle grandi città?
“Nel piccolo paese non c’è questo problema, le persone restano integrate, il povero viene aiutato dal parente, dall’amico, dal conoscente”.