Nei simboli le radici cristiane

Un linguaggio fatto di forme arcaiche e di significati teologici complessi

Quando parliamo di simboli cristiani il nostro pensiero corre alle maestose rappresentazioni delle basiliche medievali, alle raffinate opere del Rinascimento, alle esaltanti produzioni artistiche di epoca barocca; eppure il legame tra predicazione cristiana e immagini ha origini antichissime, risale infatti alle prime comunità che si stanziarono nella Roma imperiale. Fu soprattutto durante il periodo delle cruente persecuzioni, verso il II secolo d.C., che i cristiani elaborarono un vero e proprio linguaggio di figure e simboli, ora più espliciti ora meno, attraverso i quali potevano riconoscersi e quindi confessare segretamente la fede comune. Attraverso le immagini era possibile descrivere la ricchezza degli episodi biblici, spesso di difficile comprensione. Sarà infatti papa Gregorio Magno, secoli più tardi, a spiegare ad un prete di Marsiglia preoccupato appunto per la presenza così cospicua delle immagini nelle chiese, che nei luoghi sacri “viene usata la pittura affinché gli analfabeti possano leggere con gli occhi sulle pareti ciò che non sono in grado di leggere sui libri” (Lettera 9).

Ma torniamo ai primissimi anni dell’era cristiana, dove scopriamo che il simbolo più antico non era la croce, bensì un animale: il pesce che seppure rappresentato in chiave astratta assumeva un profondo significato cristologico. Il pesce traeva infatti la sua origine dall’etimologia greca della parola (ichtùs), che scomposta indicava Iesùs Christos Théou Uiòs Sotér (Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore). La croce comparirà invece un po’ più tardi e non è quella che conosciamo noi attualmente: anch’essa traeva la sua origine dall’universo letterale greco, infatti è formata dall’unione delle lettere del monogramma di Cristo, X e Ρ, accompagnate dalle lettere Α e Ω che riprendono il testo dell’Apocalisse “io sono l’alfa e l’omega” (Ap 1,8). La croce veniva rappresentata sui sarcofagi e sulle tombe dei cristiani, poiché voleva appunto indicare che con la morte non terminava la vita dell’uomo, ma continuava nell’attesa di Cristo alla fine dei tempi.

Importanti testimonianze si trovano nelle antiche catacombe di epoca romana, come quelle di San Pietro e Marcellino, oppure santa Priscilla o nell’ipogeo di via Latina. Un posto di rilievo spetta all’immagine del Buon Pastore, sia perché la rappresentazione era un implicito richiamo alla croce, sia per il complesso significato soteriologico che voleva esprimere. La figura traeva origine dalla parabola evangelica (Lc 15, 5), ma la sua raffigurazione proprio nelle catacombe indicava la funzione di Cristo nella Storia della Salvezza. Gesù che discende agli inferi per ritrovare la pecorella smarrita, ovvero l’umanità caduta nel peccato, e risale con essa sulle spalle al monte, stava a significare un richiamo alla Resurrezione. Di grande bellezza è il Buon Pastore che si trova in un antico sarcofago custodito presso il Museo Pio Cristiano, presso il Vaticano. La figura si carica di ulteriori elementi interpretativi, in quanto il pastore barbuto e virile con la pecora in spalla è rappresentato sopra un’ara sacrificale che richiama il sacrificio pasquale con l’evocazione del giardino del Paradiso attraverso gli alberi e i racemi di vite. Altre figure erano ricorrenti nelle rappresentazioni cristiane, come quella di Giona, il profeta veterotestamentario inghiottito dal mostro marino, e quella di Noè con l’arca della salvezza. Nelle catacombe dei Santi Pietro e Marcellino, si trovano entrambi, quasi in una continuità narrativa che svolge la funzione di prefigurare la venuta del Cristo. La primissima arte cristiana elaborò quindi un complesso linguaggio che si serviva di forme arcaiche e di significati teologici complessi, un universo che paradossalmente alla società attuale, così ricca di immagini, risulta difficile decifrare, forse perché come ricorda Martine Dulaey “imporre ai testi antichi le nostre griglie di lettura è il modo migliore per non capirne niente”.