Un Natale diverso narrato da alcuni grandi scrittori

Alcuni grandi scrittori raccontano la vera essenza della nascita di Gesù

“Andarono, lo Spirito e Scrooge, di là della corte verso una porta alle spalle della casa. Si aprì loro davanti, mostrando un camerone nudo e malinconico, che pareva anche più vuoto di quel che era per certe file di banchi e di leggii. Ad uno di questi, presso un misero fuocherello, leggeva tutto solo un ragazzo; e Scrooge cadde a sedere sopra uno di questi banchi e pianse a riveder sé stesso, misero, dimenticato, come allora soleva essere”.
Non solo spese e doni non necessari, e vesti sontuose, e viaggi esotici, dunque. Dickens volle far vedere al suo taccagno Scrooge del “Cantico di Natale” ciò che era stato: un bambino lasciato da solo in collegio il giorno di Natale perché nessuno andava a prenderlo per donargli un camino, due genitori, un sorriso. Quello che conterebbe in un mondo meno rapito dalla roba, direbbe un altro grande, stavolta siciliano, come Verga, il cui Mastro don Gesualdo somiglia molto al taccagno dickensiano, anche se venuto quarant’anni dopo. Ma anche Dostoevskij non ci andava delicatamente, nel ricordarci che cosa c’è dietro una festa oggi tutta luccichii e spese, ma ai suoi tempi, siamo nel 1876 del racconto “Il bambino presso Gesù”, miseria e morte per stenti di una infanzia innocente. E faceva bene, ad essere indelicato, perché significa ricordare che quella antica natività portava altri messaggi con sé. Quello di Guido Gozzano, che nella sua celebre poesia “La notte santa”, siamo ai primi del Novecento, immagina che proprio i sacri genitori si vedano chiuse in faccia tutte le porte a causa della festività di cui sono in realtà i protagonisti. Gozzano lo dice chiaramente: la nascita di Gesù non ricorda “sete e molli tappeti”, ma “un poco di paglia”, metafora che sta a significare giacigli di fortuna, panchine di un parco in inverno, metropolitane, sale d’attesa, gommoni stipati e treni in binari morti. E, per inciso, la stessa musica d’autore ricordava negli anni Sessanta che il cristiano aveva perso di vista la realtà biblica, non sapendo aggiornarla ai tempi, in quanto, cantavano Simon and Garfunkel in “The sound of silence”, “le parole dei profeti sono scritte sui muri della metropolitana e agli ingressi delle case popolari”.
Sì, il rischio non solo è rimasto, ma si è rafforzato, perché la grande crisi economica ha fatto nascere la paura della povertà e la ricerca di una autogratificazione, e nel contempo ha scatenato la corsa all’oggetto non carissimo e neanche troppo da poveri, che in qualche modo serva da garanzia nel gioco dei ruoli che anche il Natale talvolta impone.
Lo stesso laico Pascoli a fine Ottocento tentava di recuperare la dolcezza del Natale negli affetti più puri, quelli gratuiti, quelli di una famiglia che a lui venne presto negata e che rimpianse per tutta la vita: le ciaramelle di una sua celebre poesia suonavano il “suono di mamma, suono del nostro/ dolce e passato pianger di nulla”. Ma d’altronde anche “Natale in casa Cupiello” (1931) di Edoardo De Filippo, presenta l’avvicinarsi della festività come il dramma dell’incomprensione e della distruzione familiare, con il messaggio implicito che il dono più bello sarebbe quello di una serenità familiare volta a tutelare soprattutto i bambini.
Anche Pirandello, un altro laicissimo della nostra letteratura, ha voluto incontrarsi con il Gesù nel giorno della festa del suo arrivo sulla terra, nel racconto “Sogno di Natale”, ed è talmente onesto da mettersi lui al posto degli uomini tristi e tesi solo alle festa materiale: Gesù gli chiede di seguirlo e abbandonare tutto, ma lui si rifiuta, anche se dispiaciuto, perché “tiene famiglia”, e poi vive in una bella e comoda casa. Un Natale diverso, insomma, in questi autori, che ci fa pensare alla bellezza originaria di un evento, che dovrebbe portarci profonde riflessioni sulla povertà e sulla miseria. Riflessioni da fare non solo in questi giorni natalizi.