Mons. Gjergj Meta (Albania): “La mia missione, portatrice di speranza per la gente di periferia”

I poveri, i giovani, la Chiesa, il futuro del Paese. Ci sono tutto l’impegno e la voglia di spendersi per il bene della sua comunità nell’intervista con il vescovo più giovane al mondo e primo vescovo scelto tra il clero albanese dopo la persecuzione

“Noi non accetteremo soldi sporchi e frutto del sangue e del corpo delle donne sfruttate. Ma la porta della Chiesa è aperta per il pentimento e la conversione. Poi, penseremo a come lo Zaccheo di turno possa devolvere le sue ricchezze a quelli che ha sfruttato, ma non alla Chiesa”. Ribadisce la sua posizione, netta e senza sconti, monsignor Gjergj Meta, vescovo di Rrëshen, primo vescovo albanese, cioè residente in Albania, ad essere ordinato dopo la persecuzione del regime. A 41 anni, mons. Meta è anche il vescovo ordinario più giovane al mondo.

Monsignore, lei è stato consacrato da poco vescovo di Rrëshen, nella regione della Mirdita, terra di tradizione cattolica e segnata dal martirio. Come considera la sua missione in questa terra?
Sono stato mandato ad annunciare il Vangelo ai poveri. È molto semplice. È la prima constatazione che ho fatto girando la diocesi in questi mesi. Io conoscevo la situazione già prima, perché molti abitanti di questa diocesi erano miei parrocchiani a Tirana e a Durazzo, emigrati dalle zone della diocesi di Rreshen. Ma adesso, toccando con mano i loro luoghi di provenienza e la situazione di tante famiglie che vivono qui, la percezione cambia. Mi sono chiesto sin dal primo giorno: che cosa vuol dire per me e per la nostra Chiesa diocesana, annunciare una lieta notizia, appunto il Vangelo, ai poveri? Che cosa può essere per loro la “lieta notizia”? Come la fede può diventare operante mediante la carità in mezzo ai poveri? Considero la mia missione, e quella di tutta la nostra diocesi, come portatrice di speranza per la gente di periferia che, come noi albanesi sappiamo bene, è spesso esclusa. Abbiamo pochi sacerdoti in diocesi e questo mi ha fatto pensare al fatto che la missione della Chiesa non è solo “roba da preti e suore”. È il momento opportuno di scoprire la missione come un carisma battesimale. Tutto il popolo di Dio è in missione. Scoprire la forza sacramentale della Parola annunciata che cambia i cuori e dà speranza. Inizieremo da lì, come in America Latina: leggeremo insieme ai poveri la Parola.

Alla sua consacrazione lei ha affermato che “questa è una Chiesa povera, ma non accetteremo soldi da chi ha sfruttato la prostituzione delle donne, da chi si è arricchito con la mafia, la criminalità, la droga”. Perché questa insistenza nel prendere una posizione netta? 
Se non si prende una posizione netta e chiara si pecca di neutralità e, direi, di complicità. Noi non accetteremo soldi sporchi e frutto del sangue e del corpo delle donne sfruttate. Ma la porta della Chiesa è aperta per il pentimento e la conversione. Poi, possiamo vedere come lo Zaccheo di turno possa devolvere le sue ricchezze a quelli che ha sfruttato, ma non alla Chiesa. La Chiesa in Albania deve prendere posizione, una reazione operativa, che allo stesso tempo accusa la corruzione, la malavita, gli sporchi guadagni, il traffico degli esseri umani, il maltrattamento delle donne. La Chiesa, inoltre, si deve impegnare concretamente con i suoi fedeli per trovare soluzioni adeguate per le situazioni di disagio.

La Chiesa albanese, come la società albanese, è giovane, con tanta gioventù: quali i modelli e i valori cristiani da proporre?
I giovani sono una grande risorsa, certamente. Ma hanno bisogno di modelli. Tutti ne abbiamo avuto bisogno. Io penso che i modelli ci siano, ma purtroppo spesso sono conosciuti solo i modelli che una certa stampa vuole far passare. Noi abbiamo i martiri, ma abbiamo anche molta gente onesta che lavora ogni giorno, in fin dei conti i genitori stessi dei giovani sono dei modelli. Ma qui si tratta, ancor prima, di sostenere anche i modelli che vanno controcorrente. Molti giovani in Albania sognano una vita fuori dal Paese, vogliono andare via, alcuni vogliono lavorare, ma molti hanno il sogno dei soldi facili. In modo particolare i giovani hanno bisogno di ascolto e di accompagnamento, ma non di paternalismi e né, tantomeno, di una logica pessimista e di sfiducia. La visione cristiana della vita dev’essere presentata e vissuta come una possibilità di vita nuova, piena di significato, nella quale il mondo – non la mondanità – viene amato. Tutto ciò può aiutare i giovani ad orientarsi nella loro vita e compiere scelte coraggiosi e forti.

Quanto è importante, secondo lei, infondere soprattutto tra i giovani modelli positivi e cristiani?
Il modello rimane sempre un punto di riferimento, ma esterno, al di fuori di noi. Aiuta in un primo momento, ma poi nella crescita ciascuno deve farsi il suo di modello. Bisogna aiutare i giovani a non conformarsi ai modelli, anche a quelli più buoni, ma a percorrere la strada della originalità. Questo vuol dire vocazione: realizzare ciò che io, oggi, con questa mia personalità e peculiarità voglio fare e che Dio vuole da me. Abbiamo modelli cristiani molto forti sia qui in Albania che fuori di essa. Penso a un Dietrich Bonoeffer, a Martin Luther King, a don Lorenzo Milani, a papa Giovanni XXIII e cosi via. Ciascuno di essi aiuta a orientarsi, ma poi la strada da percorrere è sempre unica ed originale per ciascuno. Ai giovani piace essere originali. È un buon punto di partenza. Aiutare i giovani a scoprire la loro vocazione porterà ad un futuro più impegnato della vita sociale del paese e a una Chiesa più viva.

Lei ha affermato in varie occasioni che la maggiore sfida della società albanese è la migrazione ad ogni costo. Cosa intende dire?
La migrazione è una ferita iniziata dagli anni ‘90 con la caduta del regime, ma che purtroppo ha ripreso negli ultimi anni. Sì, molti vogliono andare via dall’Albania. La corruzione, la disoccupazione, la mancanza di tanti servizi sanitari e di istruzione hanno scoraggiato molte persone. Infondere speranza in questa situazione diventa un compito difficile. A volte solo il fatto di rimanere qui e servire la gente può fare molto, ma a volte non basta. Spesso siamo costretti a salutare gente e famiglie intere che se ne vanno per una vita migliore all’estero. Ma noi restiamo qui.

Nella storia del Paese e della Chiesa albanese ci sono tante difficoltà e martirio. Una eredità importante… E guardando al futuro, lei cosa vede?
Il passato del martirio è un punto di appoggio, un riferimento, ma non ci si può fermare lì. Quei martiri sono martiri di Dio e non della Chiesa cattolica soltanto: appartengono a tutti. E noi dobbiamo fare i conti con il presente e dobbiamo lavorare molto per contrastare sia il radicalismo diffuso e sia questo futuro incerto. Il futuro è nelle mani di Dio, ma anche degli uomini. Io non perdo mai le speranze nel bene che sta dentro il cuore dell’uomo. Noi siamo cristiani: siamo vincitori in Cristo Gesù, ma questa vittoria deve essere anche conquista di ogni giorno, nella fatica della lotta per la vita. A noi sacerdoti e vescovi tocca a volte guidare il gregge, a volte camminare insieme ad esso e molte volte è necessario farci indicare la strada da coloro che guidiamo.

Mira Tuci (da Tirana)