Mercato del lavoro in subbuglio. L’economista Becchetti: “È peggio di 40 anni fa”

Dall’Alitalia alle proteste dei tassisti, fino alle tante crisi aziendali che lasciano a casa la gente. Le indicazioni dell’economista Leonardo Becchetti: tassazione equa per “chi sta creando valore” e attenzione alla concorrenza quando può nascondere “lavoro malpagato”

Trasporti in subbuglio, dai taxi agli aerei. Ma ancora una volta a mostrare difficoltà è un mondo del lavoro costretto a far fronte a sfide globali.

Alitalia continua a macinare (e perdere) denaro, affrontando in questi giorni l’ennesima crisi: servono 500 milioni di euro per scongiurare lo stato d’insolvenza, e già si profilano nuovi esuberi (dopo gli 8.200 fuoriusciti nel 2008 per il piano Fenice). Oggi i dipendenti dell’ex compagnia di bandiera sono 12.600, oltre a 30.000 esterni, ma il taglio – con l’obiettivo di riportare i conti in equilibrio nel 2020 – dovrebbe riguardarne 4.000, per la metà interni. Nel piano anche l’apertura di tratte low cost, riecheggiando la politica aggressiva del concorrente irlandese Ryanair, che però ha costi del lavoro decisamente più contenuti.

I tassisti, invece, hanno incrociato le braccia – con proteste anche violente – per opporsi al decreto “Milleproroghe” che rinviava una più stringente regolamentazione del settore. Al “nemico” storico rappresentato dai noleggi con conducente (Ncc) oggi si affianca un nuovo, temibile rivale: la multinazionale Uber, ignorata da una normativa precedente l’avvento delle app e dei servizi fruibili attraverso gli smartphone, nonché con una diversa e più favorevole tassazione.

Poi, le tante crisi aziendali che ormai non fanno rumore se non a livello locale: l’Artoni, azienda di logistica con 570 dipendenti, è in difficoltà dopo la mancata acquisizione da parte dell’altoatesina Fercam; dalla Pmt di Pinerolo (Torino), dopo il fallimento, sono rimasti a casa 142 lavoratori; la multinazionale di materiali isolanti K-Flex sta per chiudere lo stabilimento brianzolo di Roncello lasciando senza lavoro 187 persone (che hanno, tra l’altro, incassato recentemente la solidarietà della Pastorale sociale ambrosiana). A Taranto, invece, si prospetta la cassa integrazione per 3.300 lavoratori dell’Ilva (60 dei quali a Marghera), mentre persino le cure “salvabanche” non sono indolori, se la Carife (una delle 4 banche coinvolte nel provvedimento di Bankitalia del 2015) per trovare un possibile acquirente ha dovuto ridurre l’organico con 340 esuberi.

“C’è uno spicchio d’Italia che funziona, pressappoco un terzo: sono aziende che hanno trovato una leadership nel loro settore o lavoratori che operano in settori protetti come quello dei dipendenti pubblici”, esordisce l’economista Leonardo Becchetti, docente di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata e membro del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali, riflettendo su questo mondo lavorativo in agitazione. Già, perché a fianco di quel terzo “c’è una parte consistente che soffre perché il suo modello di business non funziona più oppure si trova a fronteggiare la concorrenza di aziende con una sede fiscale non chiara”. E qui, per Becchetti, si trova il problema primario da affrontare, ovvero

“tassare in maniera equa chi sta creando valore”.

“Non siamo condannati alla fine del lavoro – aggiunge – se sappiamo tassare e ripartire le risorse in maniera equa”.

Tuttavia, oggi le differenti politiche fiscali – anche all’interno della stessa Unione europea – fanno sì che ci si trovi in una zona grigia “non illegale ma immorale”, dove si gioca sul filo dell’elusione. Il caso Ryanair (che peraltro a fine 2013 si è impegnata a pagare tasse e contributi in Italia) è emblematico: nel 2015 il Tribunale del lavoro di Roma l’ha condannata a versare oltre 3 milioni di contributi all’Inps, mentre un procedimento pressoché analogo incardinato a Bergamo, nel quale l’Inps lamentava mancati contributi per i dipendenti che gravitavano sull’aeroporto di Orio al Serio chiedendo 9,4 milioni di euro, si è conclusa con un’assoluzione poiché era correttamente assunto e assicurato socialmente in Irlanda, e lì ha versato i contributi previdenziali nel periodo contestato (2006-2010). A tal riguardo, Becchetti sollecita “una risposta seria” a livello legislativo nazionale e comunitario, per uscire da incertezze.

In secondo luogo “bisogna far capire al cittadino che dietro un buon prodotto c’è un buon lavoro”, mentre

“dietro un prezzo conveniente ci può essere lavoro malpagato”.

Non è più una questione di sfruttamento dei lavoratori del Sud del mondo, ma anche quanti abitano alla porta accanto possono essere stritolati dagli ingranaggi di questo meccanismo, che vede da una parte sfruttamento (è di pochi mesi fa la protesta dei fattorini che consegnano le pizze a domicilio), dall’altra concorrenza sleale dei grandi verso i piccoli. “Elusione – sintetizza l’economista – vuol dire che la grande azienda multinazionale paga 10 e la piccola 30. C’è, qui, un problema di difesa dell’economia italiana, che per il 94% è costituita da piccole imprese e artigiani”. Insomma,

“come consumatori oggi siamo quasi onnipotenti, ma con un mercato del lavoro peggiore di 40 anni fa”.

Come fare? Premiando il “buon” lavoro, le aziende che adottano comportamenti corretti e sostenibili nei confronti dei dipendenti, del mercato e anche dell’ambiente. Becchetti suggerisce un “corporate advisor, una sorta di tripadvisor del sociale e dell’ambiente, per dare al consumatore la possibilità di capire cosa c’è dietro ogni filiera”. E scegliere consapevolmente, ristabilendo un’equità tra piccoli e grandi. Oggi “in molti settori economici si può produrre molto valore con poco lavoro”, conclude l’economista. Ma in gioco non c’è un risparmio economico, bensì la tenuta di una società e la dignità umana di tanti che rischiano di finire stritolati ai margini. E che magari incontriamo già sul pianerottolo di casa.