Ricorre l’anniversario della scomparsa di Adriano Olivetti e l’occasione può tornare buona per fare il punto della situazione, interrogarsi su come siamo messi, e verificare se c’è qualcosa da recuperare – in chiave generale, ma anche locale – nell’esperienza di un imprenditore in cerca di un equilibrio possibile tra il necessario profitto e il progresso umano, civile e spirituale delle comunità.
Il 27 febbraio di 55 anni fa moriva Adriano Olivetti. Ci perdoneranno i lettori se torniamo sulla sua figura dopo averle dedicato un numero quasi “monografico” nel 2010. A quell’edizione e a quei materiali – facilmente reperibili anche sul sito di «Frontiera» – rinviamo per l’approfondimento dei tanti aspetti di questo imprenditore umanista.
Qui ci limiteremo a rilevare come ad un lustro da quella ricognizione, la complessa figura di Olivetti – imprenditore innovativo, urbanista, uomo politico e teorico – non sembra aver perso attualità. Al contrario: la crisi dell’economia e la trasformazione della sfera sociale e politica paiono rendere ancora più contemporaneo e necessario il suo pensiero.
Tante volte si è detta e ascoltata la tesi secondo cui l’esperienza olivettiana è stata qualcosa di originale, unico e particolare. Forse troppe volte: quasi a voler negare la possibilità che quell’impostazione possa prendere forza ed essere messa a sistema. Come a dire che le concezioni della fabbrica e della società di Adriano debbano essere semplicemente condannate a restare nel solo campo dell’utopia.
Ma se oggi è quanto mai vero che il sistema economico pensa solo a sfruttare l’uomo per l’efficienza e il profitto, è altrettanto vero che Olivetti riuscì in misura tutt’altro che trascurabile – e certo non senza risultati concreti – a fare delle proprie fabbriche di macchine da scrivere e calcolatori luoghi in cui il lavoro godeva di grande dignità e rispetto. Di più: luoghi nei quali, nell’ambito di regole severe ma umane, si lavorava insieme per lo sviluppo comune.
Un’esperienza da richiamare anche perché sembra aderire e dare corpo alla visione dell’impresa e del lavoro della Costituzione repubblicana: una concezione che oggi si direbbe dimenticata se non calpestata. Una prospettiva fondata su un’idea alta della vita e della storia dell’uomo, su radici culturali, civili e religiose che sembrano contraddire con forza l’idea ormai dominante: quella secondo cui ogni autorità, ogni soluzione, ogni cittadinanza deriva dal mercato.
La vicenda e il pensiero di Olivetti, infatti, paiono ricordare a tutti che il buon mercante nasce dal buon cittadino e non viceversa. Un cittadino, viene da aggiungere, “concreto”, interessato dal conflitto «tra la macchina e l’uomo, tra lo stato e un ente territoriale locale, tra la tecnica e la cultura, tra la burocrazia e il cittadino, tra l’economia del profitto e l’economia del bisogno, tra l’automatismo e il piano, tra il mero piano economico e il piano urbanistico, tra la città elefantiaca e l’insediamento a misura d’uomo, e infine tra l’ipotetico idillio di una società avvenire e la reale angoscia delle “generazioni bruciate”».
Sembrano contraddizioni del mondo d’oggi, ma Adriano le elencava nel “Manifesto programmatico del Movimento di Comunità” (1953), chiarendo subito: «noi sapremo immediatamente qual è la nostra parte». Una scelta di campo che l’imprenditore era certo di poter operare prestando ascolto alla convergenza di «tutti gli elementi più urgenti della morale cristiana, dell’anarchismo, del liberalismo, del socialismo». Un orizzonte morale al quale Olivetti riteneva indispensabile rimanere fedeli «se si vuole, dalla profonda crisi del nostro tempo, risalire alla gioia della libertà e all’unità dell’uomo».
Si potrebbe dire che questa concezione del lavoro e della responsabilità imprenditoriale, per quanto affascinante, voli troppo alta per il gretto contesto attuale. Al punto che quanti sentono la forza della proposta ne risolvono l’invito guardando all’esperienza dell’Olivetti come a una sorta di totem: tanto sacro quanto inutile ed inerte.
Ciò nonostante, negli anni che ci separano dalla morte di Adriano è successo anche altro. Alla domanda che l’imprenditore pone nel bellissimo discorso di Pozzuoli (1955): «Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti?» sono arrivate anche risposte positive.
Infatti le riflessioni su un’economia dal volto umano non sono venute meno, né sono mancate riuscite esperienze di “altra economia”. Tutte proposte rimaste ai margini, quasi soffocate dal capitalismo di rapina e dalla deriva finanziaria degli ultimi decenni, siamo d’accordo. Tuttavia oggi sembra aprirsi una possibilità di cambiamento.
Forse la sconfitta di chi rivendica il primato dell’uomo sull’economia non è definitiva: con la gravissima e prolungata crisi che stiamo attraversando si moltiplicano le critiche all’impostazione economica dominante. L’idea di un’impresa umanistica e sociale sta riprendendo voce. La visione dello sviluppo come incremento della civiltà e non del profitto sembra cominciare a destare interesse. Anche se chi tiene a cuore questa visione non può farsi facili illusioni.
I grandi centri di potere e di pensiero, infatti, sono ancora tutti in mano al capitalismo più feroce. Ma almeno paiono emergere le condizioni per ritornare a battersi. E in questo senso l’opera di Adriano Olivetti può senz’altro tornare utile, a patto di non illudersi di poter trovare nel passato soluzioni a sfide nuove, di non confondere memoria e nostalgia.
«I tempi corrono, le cose si muovono, non possiamo fermarci a rimescolare le formule e le istituzioni del passato se non per quella parte di bene che in esse è contenuta e per cui ancora valgono» ammoniva lo stesso Adriano.
Come a dire che le soluzioni dei problemi di oggi – anche nella nostra piccola città – le dobbiamo trovare noi, cercando di raggiungere l’obiettivo coniugando coraggio, impegno e speranza, magari anche riprendendo qualche buona esperienza rimasta incompiuta e difendendo quanto di buono si fa avanti.
Certo: la strada è in salita. Ma la partita è ancora tutta da giocare e qualche punto lo si può sempre segnare.