Memoria dei defunti. La morte, tabù per eccellenza nelle società occidentali

Il tabù per eccellenza della morte nelle società occidentali è una delle più grandi bugie che inganna i nostri giorni

“Papà, ma se dici che il nonno sta dormendo, perché lo hanno tutto vestito e gli hanno messo pure le scarpe?” L’innocenza acuta di una bambina apre uno squarcio sul mistero. Il mistero della vita e della morte, quello che sperimentiamo ogni istante dell’esistenza, quello che celebriamo con ritualità necessaria e catartica in questi giorni. In punta di piedi lambisco un mondo interiore – quello della perdita di una persona cara – in cui spesso l’amicizia e la preghiera possono solo introdursi, restando su una soglia che appare quasi invalicabile. Credo che l’umanità possa distinguersi (fra i tanti criteri) fra chi ha già perso un genitore e chi no.

Si tratta di un’amputazione spirituale che non può non affiorare nei tratti della personalità di un uomo e una donna (tanto più se questo è avvenuto precocemente nel cammino della vita), non può non essere un segno distintivo – non necessariamente negativo, ma sicuramente doloroso in partenza – del carattere di una persona.

Chi ha affrontato il grande vuoto, l’incolmabile mancanza di una persona cara, vitale per lui… – e ancora più scandalosamente misteriosa è la perdita di un figlio, ma anche di un coniuge con cui si era pronti a camminare insieme ancora per molti anni – è necessariamente più adulto, se il termine rendesse, di chi non ha ancora sperimentato questa lacerazione. Quanto sarebbe motivo di progresso civile, culturale e spirituale se nelle nostre vite la morte non fosse una ladra che si intrufola improvvisamente e di nascosto, ma potesse divenire una compagna di viaggio, una strana e inquietante presenza che, però, si può addomesticare e accettare seduta al proprio fianco.

Il tabù per eccellenza della morte nelle società occidentali è una delle più grandi bugie che inganna i nostri giorni. La morte non esiste solo nel momento in cui tocca la nostra carne o quella dei nostri cari, la morte è sempre lì e dovremmo deciderci ad imparare a guardarla negli occhi, a conoscerne il linguaggio, i suoi codici e quasi ad avere il coraggio di danzarci insieme.

I grandi non sono più capaci di confrontarsi col mistero in genere e ancor più con quello della morte e pare quindi un miraggio che sappiano parlarne ai loro piccoli, eppure sono proprio i nostri figli, come la bambina evocata all’inizio, che ci costringono a fare i conti con le domande che fanno parte integrante della nostra umanità, la costituiscono, a dispetto di ogni moda, di ogni censura, di ogni offuscamento tiepido o pavido che ci viene offerto dalle agenzie culturali dominanti, dove la morte (si pensi alle notizie di cronaca nera o a quelle legate alle vittime del terrorismo) è messa in scena ma non è mai interrogata, è una comparsa, più o meno deturpata, più o meno coperta di sangue, ma senza battute, senza parole, senza risposte.

E invece i nostri figli ci chiedono proprio risposte, ci chiedono il perché delle lacrime per una malinconia infinita di una persona cara. Ci chiedono perché dobbiamo morire, se è vero che tutto deve finire oppure no… e non è necessario essere credenti per sentire essi che hanno diritto a una risposta, qualunque esse sia. Come ogni innamorato che si rispetti, ciascuno di noi desidera che l’amore sia infinito e si ribella a che un legame possa essere interrotto per sempre. Non possiamo meravigliarci che i bambini ci domandino dove finisce (se finisce!) la vita di chi abbiamo amato, che ci chiedano se esiste un Paradiso e com’è. Una volta i cosiddetti Novissimi erano materia di studio anche per i comuni mortali, (appunto!) e non argomenti relegati nelle aule di teologia, oggi siamo orfani di questi fondamentali e annaspiamo nella paura e nell’ignoranza quando, tenendoci per mano, un figlio ci chiede cosa significhi che “siamo nati e non moriremo mai più” come usava dire Chiara Corbella.

Un’anziana nonna sazia di giorni mi chiedeva prima di morire come sarebbe stata la resurrezione dei corpi, augurandosi che “gloriosi” potesse significare risorgere senza tutti i mali che la stavano spegnendo… Un amico mi confidava che vedere un collega “ridotto” in un’urna di ceneri dopo la sua cremazione gli aveva dato per la prima volta la stordente sensazione che tutto finisce. Eppure, non dobbiamo avere paura di aver paura della morte, questo è l’invito – anche evangelico – da seguire. Affrontarla con coraggio prima che ci sorprenda, anche se sarà sempre una sorpresa e mai saremo pronti. Studiare, interrogare e interrogarsi e poi preparare una pedagogia, un metodo di avvicinamento per grandi e piccoli perché l’ingresso nella nostra vita di questa presenza così ingombrante non devasti l’esistenza ma la forgi senza venirne deturpata e l’accarezzi con la stessa commovente delicatezza di chi posa un fiore su una lapide.