Mentre nella Striscia di Gaza si combatte l’ennesimo scontro a colpi di razzi e di bombe tra Esercito israeliano e miliziani di Hamas, dalle minuscole comunità cattoliche di Gaza e di Beer Sheva (Israele), tutte e due sotto attacco, arriva una testimonianza di pace e di preghiera: «Non è una questione che si risolve con le armi. Ci sono persone che soffrono da ambo le parti, madri palestinesi e israeliane che piangono con i loro figli. Le lacrime non conoscono nazionalità. Preghiamo per loro e per i nostri governanti. Nel frattempo si sarebbe raggiunto, grazie alla mediazione egiziana, un accordo per «un cessate il fuoco tra la resistenza e Israele». Lo dice da Gaza il Comando unificato delle fazioni palestinesi ma da Israele, per ora, non è giunta nessuna conferma.
Riesplode la violenza nella Striscia di Gaza dove da domenica si susseguono attacchi tra esercito israeliano e miliziani di Hamas con bombardamenti ed esplosioni che hanno provocato, ma il bilancio è provvisorio, sei morti tra i palestinesi e uno, un alto ufficiale delle Forze speciali, tra gli israeliani. Secondo i media locali che citano l’esercito israeliano, circa 400 razzi sono stati lanciati da Gaza su Israele da lunedì, tra cui una settantina dopo la mezzanotte; una ventina sono caduti in centri abitati (Ashqelon, Sderot e Netivot nel sud), un centinaio sono stati intercettati dal sistema Iron Dome, tutti gli altri sono caduti in aree aperte. Israele ha risposto bombardando «circa 150 obiettivi terroristici di Hamas e della Jihad islamica». Sempre lunedì, un aereo F-16 israeliano ha colpito gli studi della stazione televisiva di Hamas, Al-Aqsa, causando ingenti danni, ma senza vittime né feriti. Israele aveva avvertito dell’attacco e l’edificio era stato evacuato.
«La tensione è palpabile. Ieri le autorità locali hanno dato l’avviso alla popolazione di restare nei pressi dei rifugi e dei bunker», racconta al Sir don Piotr Zelazko, parroco di Sant’Abramo a Beer Sheva, nel sud di Israele, città già colpita dai razzi di Hamas lo scorso 17 ottobre e tutt’ora minacciata dalla Jihad islamica. «Attraverso i social ci arrivano dai nostri conoscenti che vivono a Sderot, a soli 20 km da qui, i filmati dei missili lanciati da Gaza. Siamo consapevoli dei pericoli. Poco meno di un mese fa qui una madre è riuscita a salvare i suoi figli riparandosi nel bunker sotterraneo della propria casa. Chi vive a poca distanza dalla Striscia purtroppo si è abituato a questa tensione ma noi non vogliamo smettere di pregare per la pace».
«La nostra comunità, composta da circa 120 fedeli tra i quali anche israeliani e arabi israeliani, sta reagendo a questa situazione con la preghiera. Domenica, alla messa, la paura non era così grande ma adesso muoversi non è possibile e quindi abbiamo creato dei gruppi di preghiera su WhatsApp. Ogni giorno ci scambiamo inviti alla prudenza e informazioni utili ma soprattutto preghiamo per la pace e per i più deboli.In questo conflitto i più deboli sono i due popoli. Non è una questione che si risolve con le armi. La forza bellica di Israele è evidente. Ma qui ci sono persone che soffrono da ambo le parti. Ci sono madri palestinesi e israeliane che piangono con i loro figli. La sofferenza accomuna israeliani e palestinesi. Le lacrime non conoscono nazionalità. La Chiesa non guarda alle bandiere ma a chi soffre e prega per tutte queste persone. Ma preghiamo soprattutto per i nostri governani, èer chi ja in mano le sorti di questa guerra e può decidere di farla finire senza altro spargimento di sangue».
A Gaza e a Beer Sheva due piccolissime comunità cattoliche di frontiera, tutte e due sotto attacco e unite in preghiera per la pace. «La maggior parte della mia comunità è israeliana, quella di Gaza è palestinese, ciascuno ama il suo Paese, ma in momenti come questi siamo tutti uniti nell’appartenenza alla Chiesa e a Cristo. E tutti insieme invochiamo il dono della pace». «Oggi a Gaza le scuole sono chiuse. La decisione delle autorità della Striscia è giunta dopo l’intensificarsi dei bombardamenti israeliani» raccontano al Sir fonti della Chiesa locale che vogliono restare anonime. «A Gaza la comunità cattolica è composta da circa 140 fedeli. Siamo costretti in casa. È sconsigliato uscire. Non possiamo andare in parrocchia per partecipare alla messa. Non possiamo fare altro che pregare per la pace. Un’altra guerra sarebbe un colpo mortale per tutta la popolazione gazawa. Siamo uniti nella preghiera da una parte e dall’altra per chiedere la fine della violenza e una pace giusta e sostenibile».
Una volta per tutte.