Scomparse

Maradona non morirà mai per davvero: il bambino infinito a cui essere grati

Diego resta un simbolo, l'icona del genio maledetto, baciato dal talento ma non abbastanza per evitare di accartocciarsi la vita e buttarla nel cestino

I cinici adesso diranno che non poteva che finire così. Ma è immensamente doloroso comunque. Diego Maradona è stato il bambino infinito a cui bastava una palla per far innamorare il mondo, e l’uomo a cui non è bastato pensare con i piedi. La morte lo ha sorpreso quando già non era più vivo: affaticato, stremato, gonfio. Come può esserlo solo chi ha attraversato fango, splendori, bassezze e lusso.

No, Diego non morirà mai per davvero. Anche se si era sepolto da solo quando aveva smesso di giocare, arrampicandosi sfatto e pesante sugli specchi della propria carriera. Oggi diventa ufficialmente un mito, 36 anni dopo il suo primo gol con la maglia del Napoli, 34 anni dopo aver vinto il titolo mondiale con la sua nazionale, 29 anni dopo la prima squalifica per doping e 26 anni dopo l’ultima, 24 anni dopo l’ultima rete su azione, 23 stagioni dopo l’ultima partita ufficiale di una carriera chiusa con 353 gol, solo 6 con il destro, uno con la mano.

In Argentina, a Napoli, ovunque: per chi lo ha visto zampettare sull’erba come nessun altro, Maradona resta un simbolo, l’icona del genio maledetto, baciato dal talento ma non abbastanza per evitare di accartocciarsi la vita e buttarla nel cestino. Diego si è fatto amare perché non ha solo giocato a calcio, ma perché per anni è stato il calcio. Ha sparso generosità, ha visto scudetti e manette. Ma alla gente è sempre stato simpatico perché è caduto e si è rialzato. O forse solo perché si è rotolato nel vizio senza mai dare la colpa agli altri.

Oggi, come sempre, ammiriamo i buoni e invidiamo i belli. Ma sono i cattivi che ci mancano. Sono quelli che non stanno alle regole del gioco che ci affascinano, perché ci fanno sentire migliori di loro, perché hanno bisogno del nostro perdono, perché sono per sempre nelle nostre mani: abbiamo il potere di assolverli o condannarli senza che nessuno possa dire che ci sbagliamo. Specie di fronte a un ex divo che non è un eroe da portare ad esempio ma un uomo con le nostre piccolezze, anzi molte di più.

Ecco perché abbiamo sempre pensato a quanto sia stato squallido e bugiardo Maradona, ma anche meraviglioso perché accarezzava i compagni e si faceva carico delle loro debolezze. Era ricco pur vivendo di eccessi da straccione, gioioso come nessun altro quando palleggiava con un’arancia davanti alla folla in delirio, lui che diceva di aver letto tutte le poesie di Borges ma, così su due piedi, ammetteva di non ricordarsene nemmeno una.

Abbiamo amato intensamente Diego Maradona perché segnava, cantava e ballava, perché non diceva mai di no, attratto com’era da ogni attimo di vita, balordo e ingordo al punto da voler annusare tutto e tutti. Piaceva perché era un uomo sbagliato, inadeguato negli affetti, osannato nei vicoli. Quelli dove vivevano coloro che lo avevano adottato, e quelli dove era nato lui e che non ha mai dimenticato. Alla fine era rimasto un’ombra, un vagone che arrancava, la caricatura di se stesso dopo aver vissuto senza tattica e senza ordini ai quali poteva e sapeva obbedire, ma ancora carico in faccia di ingenuità, spavalderia, dolore, confusione.

Davanti a questo monumento allo spreco, chi ha ancora negli occhi le sue magie col pallone al piede non può provare riconoscenza: quella richiede analisi e giudizio, ha sfumature inevitabili sul piano della dignità. Ma gratitudine, quella sì, gliela deve. E molta. Perché è un sentimento che può essere cieco e scervellato, pura passione. Come lui.

Alberto Caprotti per Avvenire